Nel laboratorio dove gli studenti con Dsa riescono a studiare davvero

Gli studenti con Disturbi specifici dell’apprendimento sono più spesso definiti dalle diagnosi che dalle loro necessità. Dislessia, discalculia, disgrafia e disortografia aumentano nelle scuole italiane di ogni ordine e grado ma, per l’Associazione italiana dislessia , non è corretto parlare di crescita dei disturbi, quanto piuttosto di una maggiore sensibilità nel riconoscimento. Secondo l’ultimo focus annuale del ministero dell’Istruzione sui Dsa, la percentuale di alunni con disturbi specifici sul totale della popolazione scolastica è pari al 6%. L’aumento esponenziale delle diagnosi, stando ai dati del Mim, è solo un’impressione: ogni anno dal 2010, quando fu emanata la legge 170 che riconosce i Dsa, l’incremento è rimasto costante attorno al +0,5% annuo. Per Aid, la crescita è solo il sintomo che “la legge abbia sortito l’effetto desiderato”. Eppure, insieme alle diagnosi non cresce la consapevolezza. Il ritardo della scuola si misura, prima di tutto, dal periodo in cui emergono i Dsa: se alla primaria si contano 49.418 studenti con disturbi specifici, alla secondaria di I grado si arriva a 112.210 e a 192.941 alla secondaria di II grado. “Il ritardo diagnostico è un problema enorme – commenta la presidente Aid, Silvia Lanzafame – perché significa che tanti bambini e bambine passano anni della loro vita scolastica senza comprendere le loro difficoltà, accumulando frustrazione, bassa autostima e senso di inadeguatezza”. Sentimenti che si traducono – ma non ci sono dati del Ministero – anche in dispersione scolastica. La scuola non basta ai Dsa: i laboratori Aid “Sono stato bocciato perché non potevo usare le mappe concettuali a scuola”, racconta Giulio , studente al terzo anno di un istituto superiore torinese. Lo spiega con il sorriso, in un mercoledì settembrino, ai compagni e ai tutor di Aid nell’aula del capoluogo piemontese in cui, per qualche pomeriggio al mese, “studia come studiare”. Insieme a lui, altri circa 300 studenti lavorano su quelle che i pedagogisti chiamano competenze metacognitive che, in altre parole, sono le capacità che permettono di capire e controllare i processi di apprendimento. “Imparano a imparare – sintetizza la pedagogista Aid Barbara Urdanch – I nostri laboratori trasmettono le strategie. Non insegniamo storia, geografia e latino ma cosa serve per impararle”. I corsi Aid a Torino da anni assistono centinaia di alunni, dalle elementari all’università, accolti all’ingresso da un motto programmatico stampato sul muro: “Qui si sboccia e non si boccia”. “Per noi è un principio fondante – continua Urdanch, ridendo – Dobbiamo insegnare sempre metodi di studio adeguati al funzionamento di ognuno, non a quello del vicino di banco”. Allo scopo, i pedagogisti di Aid iniziano il percorso di studio dai colloqui individuali e dall’analisi della diagnosi. Per passare, poi, al lavoro nei gruppi che si svolge necessariamente a scuola finita. “La scuola, purtroppo, ancora non basta ai Dsa – commenta la pedagogista, spiegando la necessità dei corsi extrascolastici – Capita che questi alunni siano tuttora visti come ‘pigri’: dipende sempre da dove capitano e dalle competenze delle persone che incontrano. Abbiamo tanti buoni maestri, ma abbiamo bisogno che diventino esperti dell’apprendimento”. Tecnologie e mappe concettuali: i metodi alternativi “Quanti di voi usano il computer per disegnare le mappe concettuali?”, chiede un tutor Aid agli studenti. Che, con una sola eccezione, tengono tutti le mani abbassate. “Non ci stupisce che non usino i PC – commenta un’altra docente – perché nessuno ha insegnato loro come fare”. Ma l’approccio digitale all’apprendimento, per Aid, è fondamentale. “Prima di tutto – spiega Urdanch – le persone con Dsa non devono mai partire da una pagina bianca. Hanno bisogno di anticipatori cognitivi e strumenti compensativi”. In aula, gli strumenti sono computer, tablet e software che i docenti Aid usano, prima di tutto, per insegnare a costruire mappe concettuali. “Se il testo è troppo lungo – spiega una pedagogista alla classe – non si riesce a memorizzare tutto. Servono titolo e sottotitolo brevi. E poi bisogna collegarli secondo gerarchie precise e associando immagini”. Seguendo le indicazioni degli insegnanti, gli alunni giocano a costruire mappe con il computer, scoprono programmi che permettono di importare immagini direttamente dai libri di testo e, al termine della lezione, si convincono che gli strumenti digitali saranno loro alleati. “Ci proverò a casa”, commenta al compagno di banco uno dei più scettici. “Insegnare queste strategie cambia la vita – commenta Urdanch - Gli studenti ci dicono sempre che il metodo di studio appreso a scuola impone solo di ‘studiare da pagina 10 a 14’. Ma, quando non riescono a studiare così, gli alunni si irritano terribilmente. Altre volte, invece, iniziano a credere di non saper fare niente”. L'impatto psicologico e il rischio di lasciare l'aula Questa sensazione è definita dai tecnici “impotenza appresa”. “Bambini e bambine si ripetono che non sono capaci – spiega Urdanch – È un pozzo che può essere anche molto fondo, freddo e senza cibo. Noi pedagogisti ci caliamo dentro e ci beviamo una cioccolata calda con loro”. Fuor di metafora, si tratta di un processo metacognitivo, in base al quale gli studenti ritengono di “non funzionare” per una colpa soggettiva. “Una bambina di 8 anni – ricorda la pedagogista – anni fa mi disse che lei, assieme a un compagno con sindrome di Down, usciva spesso dall’aula per far andare avanti ‘quelli bravi’. Questo è il fallimento di tutta la scuola”. Per evitare episodi simili, nelle classi italiane i Dsa possono essere assistiti anche da psicologi. “Per tutto l’anno – spiega Giulia Bazzo, psicologa Aid – svolgiamo colloqui individuali e seguiamo studenti e docenti. L’importante è che venga applicato il Piano didattico personalizzato per ciascuno di loro e che funzioni il dialogo tra le parti. Capita, però, che gli studenti siano bocciati al termine di un anno in cui non sono mai state ascoltate le loro esigenze. In quei momenti, noi psicologi interveniamo per spiegare in cosa non è stato rispettato il piano didattico personalizzato e spesso riusciamo a evitare la bocciatura. Ma l’importante è sempre capire che la neurodiversità non è una patologia, ma una variazione normale del cervello”.

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Andrea Ceredani