Scrolliamo il dolore del mondo e la nostra vita: ne siamo capaci?

Prego, scomodati ché parliamo di caleidoscopi. Per quanto i lifestyle coach su Instagram lo sconsiglino come io ho messo in guardia le mie figlie dall’uso del rasoio per evitare la formazione di peli incarniti, la prima cosa che faccio la mattina è guardare il telefono. Così, anche questa mattina mangiavo la granola con il mio latte di soia, e scrollavo. Un po’ mi riconnette dopo la pausa del sonno , un po’ si tratta certamente di un riflesso ormai incondizionato, un po’ mi intrattiene - ovviamente. Mi hanno venduto uno smartphone apposta: quarant’anni fa era la sigla di Chobin il principe stellare e/o la rassegna stampa di Canale 5 a narcotizzarmi prima di andare a scuola; in mezzo ci sono stati i giornali di carta ai quali mi ero abbonata e che trovavo fuori dalla porta di casa; oggi è il telefono. Su questo dovresti già avermi intesa come decisamente laica, caro lettore scomodo: cambiano i tempi, cambiano i mezzi… si chiama progresso. Personalmente sono molto smaliziata circa il fatto che ok le onde elettromagnetiche, ok l’algoritmo che ci pompa la dopamina, ok un uso eccessivo del telefono che mi allunga dosi di cortisolo come un pusher in vena di sconti, ma la verità è che io - … noi! - con il telefono ci vivo, ci lavoro, ci scrivo, ci leggo, ci comunico, ci faccio la spesa, mi ci oriento e chi più ne ha, più ne metta. È così e gliene sono grata, inutile dirvi qualcosa di diverso. Poi finisco per detestarlo, eh , lo mollo appena possibile, l’estate scorsa guardavo retreat dove poter fare due settimane di pilates e meditazione smartphone free, ma insomma: il mio smartphone ed io abbiamo complessivamente quello che giudico un discreto rapporto. Un rapporto contemporaneo, figlio del suo tempo, da non assolvere senza prima aver catalogato gli indizi di colpevolezza ma nemmeno da condannare senza appello e senza sembrare mio nonno che disapprovava i pantaloni a zampa anni Settanta di mio padre a vent’anni o l’indignato del giorno che oggi si sconvolge per i testi trap: anacronistici e lambenti il ridicolo. Così, dicevo, il mio fedelissimo cellulare ed io stamattina a colazione passavamo dai commenti sulle differenze tra l’appello di Meloni e quello di Mattarella agli attivisti volontari della Flottilla, alla distribuzione di cibo che a Gaza si sta rendendo possibile solo attraverso l’invio di denaro per poterlo comprare al mercato nero, all’abbandono della stanza da parte dei delegati ONU durante il discorso di Netanyahu, alla collab tra Sézane e Bazistz, ai caffè con giardino per godere delle ultime occasioni di prendere qualcosa all’aperto prima che sia autunno inoltrato, ai fantomatici post secondo i quali “Per alcuni psicologi, se ti fai i fatti tuoi campi cent’anni” eccetera eccetera. Verrebbe da chiedersi cosa resta, come processiamo queste informazioni, se e in che modo riusciamo a non appiattirle lungo tutta la medesima linea comatosa di reazione - per non parlare del fatto che l’algoritmo propone contenuti diversi a seconda della profilazione, per cui chissà cosa c’è nel telefono di un’altra persona, quanto ciò che la raggiunge “parli” con quello che vengo a sapere io - e, naturalmente, viceversa. Non ho a portata di mano studi che mi dimostrino cosa succeda al nostro cervello nel saltare tra il fine settimana in Trentino del nostro compagno delle medie e il ritiro della missione di Medici Senza Frontiere da Gaza City, ma posso azzardare comunque un ragionamento. Negli ultimi tempi, le persone che conosco inglobati senza apparente via d’uscita nei pensieri, nelle notizie e nell’angoscia prodotti dal genocidio in corso, sono clinicamente quelli che stanno peggio. Hanno sviluppato a tutti gli effetti un’ossessività intrusiva per la morte, la devastazione, l’ingiustizia. Ne vengono soverchiati e per quanto magari abbiano un figlio malato, un matrimonio finito o un’ingiunzione di sfratto, in seduta non risulta possibile fare altro se non piangere per il massacro dei palestinesi. È ipotizzabile che per questo il loro telefono offra perlopiù materiale a supporto di questa compulsione e che così come a colloquio i quarantacinque minuti vengono saturati di pulsione di morte, nemmeno lo scrolling conceda spazi di tregua da cogliere per riprendere fiato e normalizzare i parametri del pensiero e del subbuglio nella pancia. Non fraintendere, lettore scomodo: stiamo facendo una operazione di cosiddetta diagnosi differenziale. In parole molto sbrigative, significa che a fronte di medesimi sintomi, segnali, comportamenti, non è detto che due soggetti condividano la stessa condizione patologica: magari due ragazze rifiutano il cibo, ma l’una perché anoressica e l’altra perché psicotica. La differenza sta nel perché non mangiano e nei modi: intensa paura di ingrassare e tirannico tentativo di controllo che mette sotto scacco la famiglia? Anoressia. Paura di fare del male al peperone o timore che un seme ingerito la ingravidi di uno strano innesto tra mondo umano e vegetale? Psicosi. Allo stesso modo, sono circondata di persone angustiate per Gaza - da tempi non sospetti. Persone molto attive quotidianamente in forma concreta, che mettono ogni giorno in agenda un pensiero, un gesto per lasciare traccia del loro impegno e della loro responsabilità umana e civile. Persone serissime, dallo sforzo incorruttibile. In cosa si differenziano da coloro i quali invece hanno spostato la residenza della loro mente a Gaza? Questi ultimi non pensano ad altro, non vogliono pensare ad altro. Non possono. Gaza diventa l’oggetto di quello che la psicoanalisi chiama spostamento, ovvero uno stimolo sul quale vengono trasferite emozioni e pensieri da allocare dove si percepisce possano risultare meno disgreganti e minacciosi di dove invece dovrebbero stare: la devastazione nella Striscia rimane una atrocità inaudita, ma ossessionarcisi permette di domare le reazioni che invece si dovrebbero avere per la leucemia del figlio, per la scelta di dover infine parlare con il marito del fatto di volerlo lasciare per l’amante, per la paura che il Tribunale per i minorenni intervenga quando si rimarrà senza casa. Nessuna distrazione è ammessa perché aprirebbe prima una crepa sottile e presto uno squarcio su una vita o un pezzo di vita dove non si vive in tende sotto i bombardamenti, ma si vive bombardati dentro, protetti solo dalla tenda dello spostamento. Incunearsi nel dolore per le donne incinte malnutrite perdendo la fame, il sonno e il senno occorre a non incontrare la propria Gaza interiore - ma anche il proprio Israele. Ci si allucina attivisti per proteggersi dallo sfacelo di essere vittime o aggressori. In una riga: non si sta bene. Al contrario, c’è chi si industria per sensibilizzare, donare e denunciare, ma poi in chat mi scrive di una nuova pietra da far montare su un ciondolo, o di un bel negozio vintage di Roma dove vale la pena fare un salto. Ci si scambia un meme, si spettegola su una nuova coppia, si va in uno di quei caffè a Milano dove ancora per qualche giorno si può fare un brunch all’aperto. Si parla del lavoro e del progetto di rifare casa, ci si complimenta per una sciarpa, ci si scambia un indirizzo segreto per comprare a prezzi di fabbrica - si è trovato il link proprio in timeline. Con questo, lettore scomodo, sono a significarti che nemmeno questa volta mi trovi, se mi cerchi nell’ufficio della retorica dove Ma-come-fai-a-passare-da-un-fit-check-a-un-post-di-geopolitica-internazionale. Trovo infatti che per menti sane la prismaticità del reale sia la prova provata della salute di chi non ignora il male nel mondo, ma nemmeno scorda di avere una vita. Da accudire, da considerare, da arredare proprio perché rimanga sana e possa occuparsi di chi ha bisogno senza che diventi solo un pretesto per non occuparsi di sé. In questo senso, lo scrolling che va dal reel comico al Nasser Hospital bombardato , ben vengano. Ci sono entrambe le cose là fuori, e molte altre. Salute mentale è disporre di sufficienti volumi interni per trovare posto a tutte.

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Stefania Andreoli