Fenomenologia delle piazze proPal: cosa dicono i sociologi

Lunedì 22 settembre l’Italia si è bloccata per Gaza. Autostrade e tangenziali interrotte, stop in alcuni porti, disagi nelle stazioni ferroviarie. Scuole, università e alcune fabbriche si sono fermate. E centinaia di migliaia di persone sono scese nelle piazze, da Milano a Catania, per sostenere la popolazione palestinese e la Global Sumud Flotilla, e chiedere lo stop al massacro di Israele . Uno sciopero nazionale che ha registrato una fortissima partecipazione, distribuita in oltre 80 cortei, nonostante fosse stato organizzato da diversi sindacati di base, non quindi legati alle principali organizzazioni sindacali confederate: CGIL, CISL e UIL. Le manifestazioni si sono svolte quasi ovunque in modo pacifico: a Milano, però, ci sono state tensioni e disordini tra manifestanti che sono sfociati in scontri alla Stazione Centrale, con cinque arresti e diversi agenti feriti, un episodio che ha catalizzato l’attenzione politica. Ma come sono andate davvero le manifestazioni del 22 settembre? Perché, come ha riferito l’Unione Sindacale di Base che ha organizzato lo sciopero, in piazza c’erano moltissime persone “che ci dicevano che era la prima volta in vita loro che scioperavano”? E quanto gli scontri avvenuti a Milano hanno invertito la narrazione della giornata di lunedì? “Quello che è successo lunedì in piazza è un fenomeno molto interessante, nuovo in parte”, dice a Sky TG24 Insider Niccolò Bertuzzi, docente e ricercatore in Sociologia politica dell'università di Parma. “Non solo abbiamo visto tantissima gente nelle piazze italiane, ma questa numerosità non era legata alla chiamata di una grande sigla confederale. C’erano molte persone comuni, non appartenenti a partiti o a sindacati, e negli ultimi anni in Italia abbiamo assistito a un incremento di questo fenomeno: molta gente – non politicizzata nel senso classico del termine - ha iniziato a scendere in piazza. Lo abbiamo visto nelle manifestazioni di Non Una di Meno contro la violenza di genere come nelle proteste per il clima, i Fridays for Future”. Questa forte adesione, sottolinea Bertuzzi, evidenzia un primo aspetto: “Le grandi forme di partecipazione politica come i grandi partiti e i grandi sindacati sono in crisi da tempo. E le persone ‘comuni’ possono contare su nuove forme di attivazione politica che non hanno necessariamente bisogno della loro mobilitazione”. E poi c’è una questione specifica, che è intrinseca al motivo della protesta: “Siamo di fronte a un genocidio, quello del popolo palestinese, e in Italia milioni di persone condividono un sentimento diffuso di indignazione nei confronti di quello che sta avvenendo nella Striscia di Gaza, anche al di là di quello che viene sostenuto dal governo e dai principali partiti politici”. Una spinta “molto politica”, quella che ha mosso molte persone a scioperare lunedì per la prima volta, ma allo stesso tempo legata a un sentimento di “empatia collettiva” che ha origine nell’indignazione. “Quello che ha spinto le persone è qualcosa che è in grado di trasformare la frustrazione individuale in un fenomeno collettivo in grado di dare voce a questa rabbia e questa frustrazione, trasformandola appunto in indignazione”, spiega il sociologo. Ma non è certo la prima volta che un grido simile riempie le piazze: “Pensiamo alle grandi manifestazioni contro la guerra in Vietnam o al movimento degli Indignados in Spagna”. In occasione dello sciopero per Gaza, però, si è verificato un fenomeno che nella letteratura scientifica viene definito dei “first time protesters”, le persone che scendono in piazza per la prima volta. “Da una parte questo è dovuto alla crisi dei grandi soggetti politici e al crescente fenomeno dell'astensionismo elettorale: la mobilitazione è diventata sempre più fluida e spontanea”, spiega Bertuzzi. “Meno gente va a votare, ma sempre più spesso si trova ad andare per la prima volta in piazza o per le strade a protestare in nome di una causa”. E in questo caso la causa, quella palestinese, tocca delle corde emotive profonde: stare a guardare attraverso gli schermi degli smartphone le atrocità che la popolazione civile sta subendo per la maggior parte delle persone è diventato insopportabile. E allora anche scioperare può aiutare a sentirsi meno soli nell’impotenza generale: “Una delle ragioni che portano le persone a scendere in piazza è anche la possibilità di condividere con altri e altre delle emozioni e in qualche modo sentirsi meno isolati”, dice l’esperto. “Questo è sempre stato valido e lo è evidentemente è ancora di più nell’epoca della digitalizzazione: ritrovarsi in un luogo fisico a reclamare un ideale comune ha anche questa funzione”. Quanto agli scontri con le forze dell’ordine avvenuti a Milano su cui la politica ha posto l’attenzione, dice Bertuzzi, possiamo parlare del fenomeno che in Sociologia è definito “protest paradigm”: “Centinaia di migliaia di persone sono scese nelle piazze italiane per protestare contro una violenza strutturale gigantesca, il massacro del popolo palestinese. Chiaramente questo non è nemmeno lontanamente paragonabile in nessun universo parallelo alla rottura di alcune vetrine come è successo a Milano. Può sembrare scontato, invece ogni volta che accadono casi simili scatta questo cortocircuito cognitivo”. Il “protest paradigm” si manifesta quando le azioni di protesta vengono silenziate, spiega il sociologo, o quando vengono riportate sottolineando però a carattere cubitali la loro natura violenta o presunta tale, dando molto più spazio a episodi marginali rispetto alla portata reale del fenomeno. “D’altra parte”, aggiunge, “risulta piuttosto ingenuo stupirsi del fatto che una manifestazione lanciata con lo slogan ‘Blocchiamo tutto’ dovesse effettivamente bloccare qualcosa. Lo stupore di fronte a questo può essere tradotto in malafede o in incomprensione delle dinamiche italiane”. Per quanto riguarda invece i manifestanti più violenti, “non penso ci sia stata una strategia da parte di alcuni gruppi o di alcuni soggetti di voler ottenere visibilità: gli scontri spesso avvengono nelle proteste così ampie, e sono sicuramente legati anche all’indignazione di cui abbiamo parlato. Trovo che anche questo fosse prevedibile”. Anche Gianni Piazza, professore associato di Sociologia dei fenomeni politici dell’università di Catania, commenta su SkyTG24 Insider la mobilitazione del 22 settembre. Per quanto riguarda i disordini avvenuti a Milano, enfatizzati da molti media e dalla premier Meloni che ha parlato di “immagini indegne”, “violenza e distruzione”, l’esperto osserva che questa dinamica narrativa è piuttosto “classica”: “Quando avvengono degli scontri all’interno di manifestazioni, accade spesso che vengano catalizzati e usati per impostare un certo tipo di racconto”. Secondo il sociologo i disordini a Milano hanno visto protagonista una piccola parte di manifestanti radicali che non facevano parte di gruppi organizzati: giovani che frequentano centri sociali di periferia e a volto scoperto, quindi non appartenenti a organizzazioni strutturate. “Anche a Venezia e Bologna lunedì le forze dell’ordine hanno utilizzato gli idranti per disperdere i manifestanti: la differenza è che a Milano una parte di persone ha reagito, contribuendo agli scontri. Non penso ci fosse nulla di calcolato”. Questi episodi non sono stati comunque in grado di ribaltare la narrazione, sostiene Piazza. “Le persone si rendono perfettamente conto che non si possono minimamente paragonare le vetrine rotte in stazione con quello che accade da quasi due anni a Gaza”. In quanto alla partecipazione allo sciopero, dice, ci sono stati elementi di novità ma “che sono frutto di proteste a sostegno del popolo palestinese nate molto tempo fa, nel 2023, soprattutto all’interno delle università. Le centinaia di migliaia di persone che sono scese in piazza lunedì non sono arrivate dal nulla: siamo di fronte alla moltiplicazione di una mobilitazione già presente da tempo e affatto improvvisa”, osserva il sociologo. “Solo a Catania, che è una città piccola, si parla di 10-15 mila manifestanti: numeri che non avevamo mai visto prima”. Come il professor Bertuzzi, anche Piazza si concentra sulle motivazioni che hanno spinto a una così alta partecipazione: “Si chiama 'shock morale'. E si manifesta quando gli standard morali ed etici a cui siamo abituati vengono violati in maniera inaccettabile. Le atrocità che stiamo vedendo nei confronti del popolo palestinese sono scioccanti e insopportabili”. E questo sentimento di indignazione condiviso ha spinto flussi partecipativi di persone che non erano mai scese in piazza a mobilitarsi. “Un genocidio in diretta non si era mai visto, e adesso è sotto gli occhi di tutti. Se nelle prime manifestazioni pro-Palestina del 2023 molti gruppi venivano accusati di essere antisemiti e marginalizzati, ora le cose sono cambiate. E l’opinione pubblica è cambiata, non riesce più ad assistere a quanto stiamo vedendo”. D’altra parte il sentire comune spesso da solo non basta, spiega l’esperto: “Per incanalarlo e manifestarlo servono anche attori collettivi che abbiano le risorse giuste per mobilitare le masse, e in questo caso è successo: sindacati di base, movimenti sociali e collettivi sono riusciti a unirsi e organizzare uno sciopero che contemporaneamente ha bloccato molte città italiane”. In corteo anche molti giovani e giovanissimi: studenti universitari, ma anche insegnanti con i propri alunni e bambini insieme ai genitori. “Anche nel nostro ateneo l’ultima lettera-appello per fermare il massacro a Gaza ha raccolto oltre 300 persone tra docenti, ricercatori e personale. Un anno fa i numeri erano molto più bassi”, spiega Piazza. E l’ampliamento del consenso comune in questo caso ha a che fare con un obiettivo concreto: fermare le bombe. Se spesso le persone non scendono in piazza perché credono che la loro mobilitazione sia inefficace, non serva a nulla, in questo caso le cose sono un po’ diverse, spiega il docente: “Oltre allo choc morale, qui c’è anche la partecipazione espressiva che è strumentale quando si vuole ottenere qualcosa. In questo caso, fermare il genocidio”. Ovviamente l’azione dello sciopero collettivo non avrà conseguenze dirette né immediate sull’offensiva israeliana: “Ma sappiamo che mobilitarci può servire a fare pressione sui governi”. Oltre a questa funzione, ricorda Piazza, anche la partecipazione stessa diventa un fine: “Ci permette di esprimere la nostra identità, di manifestare emozioni. E il farlo assieme ad altre persone aiuta a non sentirci soli o isolati”. Lunedì, il corteo per Gaza a Roma ha bloccato anche la tangenziale Est, mandando in tilt il traffico. E diversi automobilisti hanno espresso solidarietà suonando il clacson. “Questo esempio ci racconta quanto il sentire comune sia cambiato. C’è consenso nel dissenso: questa volta il cittadino medio ha sopportato il disagio che gli è stato arrecato perché non si è fermato a quello: ha capito che cosa lo ha spinto. E lo ha accettato”.

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Giulia Mengolini