Cosa dicono gli spari negli Usa del nostro mondo virtuale

A cavallo tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, gli intellettuali sembravano annoiati da decenni di pace, e molti di loro invocavano un lavacro che destasse il mondo da quella pigrizia. Quando scoppiò la Prima guerra mondiale parecchi furono sottratti all’epica della letteratura e inviati al fronte, dove conobbero pidocchi, malattie, fame, cattivi odori, morti e mutilazioni. Morirono milioni di persone, che si sommarono a quelle, pare cento milioni, portate via dall’epidemia “spagnola”. Abbandonati gli arzigogoli, gli stessi intellettuali ora scrivevano lettere disperate ai familiari. La “leggerezza” di prima, incosciente, immatura, era alimentata dal distacco dalla realtà, un’attrazione fatale per la virtualità anticipatrice del clima culturale e psicologico odierno, stavolta non determinato solo da quella superbia intellettuale che scavò un abisso tra l’immagine ideale della guerra e quello che sarebbe stato l’orrore del conflitto tridimensionale. Per capire le ragioni che oggi spingono la convivenza oltre i confini della ragionevolezza, dobbiamo partire proprio da quella faciloneria di inizio Novecento, perché contiene le ragioni primitive della micidiale miscela che si sta apparecchiando grazie a due grandi mutazioni, ossia la virtualizzazione della realtà e l’accelerazione di tutti processi esistenziali. Ne parliamo a partire dal clamore suscitato dall’uccisione di un attivista della destra americana e proviamo a dare un volto alle conseguenze della virtualizzazione della realtà. Ciascuno di noi è la conseguenza di centinaia di migliaia di anni di intrecci tridimensionali, a tale incessante azione di contatto dobbiamo la conoscenza raffinata dell’altro, la propensione a coglierne il mondo interiore. Basta una piccola turbolenza nell’umore di chi ci vive vicino e noi ne cogliamo il senso, ne pesiamo la gravità. Non accade per caso, è una competenza che arriva da lontano e fa parte di noi, tanto che grandi scienziati come Alfred Adler poterono fondare i loro sistemi teorici sull’assunto che la capacità di provare interesse verso i propri simili è un indizio di normalità psicologica. Se salta il contatto diretto, se allo stare si sostituisce il virtuale, questo interesse tende ad attenuarsi, rendendoci incapaci di percepire l’animo umano. Una mutazione radicale in atto da un paio di decenni, che sta cancellando progressivamente la nostra attitudine alla compassione, la più nobile delle conquiste, impedendoci di sentire la sofferenza altrui, anche quella che possiamo procurare noi stessi, così il nostro pensiero e le nostre azioni diventano sempre meno responsabili e sempre più spregiudicate, come se la vita fosse un videogame, dove i diritti li può decidere uno per tutti, il sangue è solo un colore e l’altro solo una figura nello spazio. Durante un dibattito, una ragazza racconta il proprio disorientamento, i compagni di scuola gli sembrano “altre persone”, quando li incontra sui social. Vuole sapere che ne penso. “Prova a darmi dello stupido, adesso, davanti a centinaia di compagni”. Risponde che non potrebbe farlo perché si vergognerebbe. Replico, “Prova a pensare che adesso siamo tutti insieme su una chat, forse ti è più facile darmi dello stupido”. La sua risposta è una lezione, “Non penso lei sia stupido, ma in una chat non farei alcuna fatica a etichettarla, non arrossirei”. È qui la radice della violenza che sta montando, la perdita del contatto diretto, l’abuso dei canali virtuali per interagire col prossimo che genera una colossale deresponsabilizzazione e restituisce agli istinti il primato che pensavamo di avergli sottratto. È ancora qui che perdiamo ogni inibizione, distruggendo il sofisticato sistema di pesi e di misure appreso faticosamente a partire da quando eravamo modesti raccoglitori nomadi. Se non riusciamo a comprendere la sofferenza che infliggiamo al nostro prossimo, perché “non la sentiamo più”, la violenza diventerà un’opzione sempre più ordinaria e quelle di oggi ci appariranno solo piccoli esercizi preparatori. E pensare che l’Intelligenza Artificiale deve ancora affondare il suo coltello. Ma ai danni della virtualizzazione si aggiunge, moltiplicandoli, l’accelerazione insostenibile delle nostre vite, perché si è spezzato il vitale rapporto tra il tempo e gli eventi. Il tempo, come una pentola, è un contenitore fisso, non vi possiamo introdurre quantità di aventi che superano la sua capacità, perché non è elastico, non si può deformare. Ogni evento, inoltre, comporta uno sforzo di riadattamento dal costo salato, e noi ogni giorno ci indebitiamo, accumulando debiti illimitati che paghiamo con una moneta chiamata stress, non di rado facendo ricorso a correttivi, psicofarmaci o chimica peggiore. Il risultato è la violenza e l’abbrutimento. Fino a quando la realtà ci precipita addosso, talvolta salvandoci. Incontro casualmente, nei giorni scorsi, una quarantenne, aveva sposato un mio paziente. La nascita di un figlio, che si era sommata al lavoro di entrambi, assorbiti da mille impegni economici, aveva messo sotto una drastica pressione questa donna, innescando una crisi insensata e violenta, che avrebbe condotto al divorzio, con strascichi infiniti, “correvamo troppo, era impossibile riflettere”. Ora racconta di sentirsi in colpa per la conflittualità del passato, spesso trafficata attraverso strumenti virtuali, che disumanizzavano ulteriormente il partner. Dopo anni di violenza e odio, inutili e dannosissimi “tutto è cambiato quando mi sono ammalata di una malattia autoimmune, scoperta lo scorso anno. Da allora la vita e diversa, più lenta, più viso a viso, mi sono placata, capisco cosa conta davvero e vorrei dire a tutti che è inutile perdere tempo a farsi del male. Ora abbiamo ritrovato legami sensati e questo farà bene a noi e a nostro figlio”. Mi piacerebbe dire che è merito della psicologia, ma sarebbe bugia. Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, rappresenta una voce autorevole nel panorama della psicologia italiana. È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra questi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, fino ai recentissimi “Volere Bene. La mente e il cuore” e “Individualisti si cresce" . Nella sua produzione sono presenti il romanzo di formazione “La casa di Henriette” e la collana illustrata di psicologia “Crescere senza effetti collaterali” , quest’ultima tradotta in diversi paesi, ultimo dei quali la Cina. È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/

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Domenico Barrilà