Un testamento per aiutare i nostri figli a rompere i lucchetti del mondo

Una trentina di anni fa un’insegnante - devastata dal suicidio di un suo studente sedicenne- venne a trovarmi. Era schiacciata dal dubbio che le fosse sfuggito qualche segnale premonitore, un indizio, anche minuscolo, che lasciasse intravedere quell’esito. Voleva capire. Uno scrupolo dettato dal trauma suscitato dall’evento, perché in realtà era una persona estremamente attenta ai propri ragazzi. Pianse per tutta la durata dell’incontro, quasi subito estrasse dalla cartellina che teneva in mano la fotocopia di una lettera scritta di pugno dal ragazzo, che risaliva a pochi giorni prima del gesto estremo. Il destinatario era una compagna di classe cui era molto legato, annichilita adesso, a sua volta, da mille domande, dubbi, rimorsi. Essere stati così vicini all’epilogo di un destino e non averlo potuto fermare può fare sentire colpevoli, oltre ogni ragionevolezza. Fu lei a consegnare quella pagina alla professoressa nelle ore successive all’evento, per tutti imprevedibile. Credo di avere letto decine di volte quelle righe e sono certo di avere imparato che a posteriori, quando il genio sembra impossessarsi di noi e ci fa maestri del giorno appresso, le nostre parole non servono più a nulla, salvo che ad alimentare quella che Guy Debord chiamava “società dello spettacolo”, vorace quanto la morte o forse ancora di più. Potrebbe sembrare, sempre il giorno dopo, che in quello sfogo con una confidente si potessero cogliere tracce di un debito di “esistenza”, di una scontentezza dai confini incerti, ma il linguaggio di quella lettera è comune tra i ragazzi, a volte le iperboli diventano norma e si fatica a distinguerle dalla realtà. Per un adulto, se possibile, arrivarci è ancora più complicato di quanto sembri perché i giovani mostrano ai grandi sempre lo stretto indispensabile, anzi ancora meno, perché sentono una distanza incolmabile, si irritano quando il loro tormento diventa bersaglio di giudizi o addirittura pregiudizi. Più facile che siano i compagni più vicini, gli amici, a percepire degli indizi più raffinati, ma non sempre sono in grado di intuirne la portata e la carica predittiva, essendo essi stessi alle prese con le asprezze di ogni giorno, che a quell’età non risparmiano nessuno. Ci sono dei giorni in cui tutto gira storto. La scuola non va come vorresti, non ti guarda nessuno e tu ti vedi più brutto del solito, sembra leggersi nei loro volti. Fai di tutto per piacere, ma sembra un’impresa disperata, come prendere il codino sulla giostra. Lo acchiappano sempre gli altri. Quando ci impegniamo a distribuire torti e ragioni, sempre il giorno dopo, mettendo sotto accusa interi corpi sociali, genitori e insegnanti soprattutto, in realtà ci stiamo comportando come i cartografi dei secoli lontani, che tracciavano linee che oggi ci appaiono patetiche caricature. Al tempo in cui quel ragazzo si è congedato dalla vita i social non esistevano, non erano neppure alle porte, siamo alla fine degli anni Novanta, ma il disagio tra le giovani generazioni galoppava anche allora, l’eroina non aveva ancora smesso di decimare le compagnie, i disturbi alimentari sembravano talvolta l’unico modo per dichiarare la propria esistenza in vita. Fenomeni non estinti dalla psicologia, spesso impotente, in tanti casi è stato il tempo a cambiare le carte in tavola o a sostituire i vecchi modi di esprimere il disagio. Quella lettera, che ogni tanto rileggo, contiene parole importanti per capire l’oggi perché ci segnala un fenomeno atemporale, racconta che il disagio dei ragazzi è soprattutto figlio dalla paura perenne di non trovare la porta di ingresso alla comunità. Nei ragionamenti di quel ragazzo, che non diventò adulto - o che forse lo diventò di colpo senza sopportarlo - prevale il desiderio struggente di “essere visto”, che in questo caso assume intensità particolare, legata direttamente a bisogni specifici, collocati molto in profondità, a quote non facilmente accessibili per un osservatore esterno, peggio ancora se distratto. Conosco a memoria le parole scritte in quel foglio che oramai si sta ingiallendo, invecchiando con me, eppure ogni volta trovo un accento nuovo, che non avevo colto e sempre più mi appare un testamento, non solo di quella generazione ma anche delle presenti e poi delle future. La differenza è che oggi il processo si è accelerato, divenendo frenetico e incontrollabile, quei pensieri, infatti, non si scrivono più sulla carta, bensì su uno schermo, dandoli in pasto a una comunità immateriale che ne accresce la risonanza senza impregnarli di senso, ma facendone addirittura pretesto di giudizi urticanti, proprio mentre i dubbi su sé stessi si moltiplicano per effetto del pettegolezzo virtuale, con tutta la sua crescente lesività. Un pettegolezzo che si è industrializzato, infatti ciò che possiamo leggere in quella pagina di carta ci dice solo da quale base siamo partiti mentre il presente ci fa intuire quanto ci siamo spinti oltre, forse troppo oltre. C’è tutto nelle parole di quella creatura vicina al congedo, una sintesi senza tempo di quella terra di mezzo che si chiama gioventù, che dovremmo perdere il vizio di comparare con la “nostra” gioventù, traendone regolarmente la conclusione che noi eravamo migliori, incrementando, forse senza volerlo, i pesanti sentimenti di inadeguatezza che già ammorbano le vite delle nuove generazioni, rendendone assai più aspra la salita.

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Un testamento per aiutare i nostri figli a rompere i lucchetti del mondo

Domenico Barrilà