Disabilità e dsa: la scuola può colmare il divario di classe sociale?

La scuola italiana ha più di un problema con l’inclusione: la formazione per gli insegnanti è insufficiente, i docenti di sostegno sono precari e la continuità didattica non è quasi mai garantita. Di fronte alla platea del Meeting di Rimini, il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara ha ammesso le difficoltà italiane e ha rilanciato tre proposte. La prima: “Quasi il 50% degli insegnanti di sostegno precari sarà confermato”. La seconda: i docenti di sostegno, in futuro, dovranno essere sostituiti da un docente “per l’inclusione” che si occupi di tutti gli studenti con bisogni educativi speciali e non solo degli alunni con disabilità. La terza: “Le famiglie potranno chiedere la conferma degli insegnanti di sostegno”. Di queste novità, secondo Valditara, beneficeranno gli oltre 350mila studenti con disturbi specifici dell’apprendimento e i circa 360mila alunni con disabilità . Numeri in crescita costante ogni anno. Molti docenti e pedagogisti, però, vorrebbero che l’inclusione riguardasse tutti i 7 milioni di studenti italiani: “Deve funzionare sia per i tanti studenti con disabilità sia per l’alunno biondo, con gli occhi azzurri, che scrive benissimo e ha una memoria di ferro. Ma, per mettere in pratica questo, serve una regia pedagogica diversa”. A parlare è Barbara Urdanch, professoressa di Pedagogia e didattica inclusiva all’università di Torino e membro del comitato scientifico della piattaforma di didattica digitale MyEdu, che ogni anno forma migliaia di docenti. A lei abbiamo chiesto in che stato versa l’educazione inclusiva in Italia. Professoressa, sentiamo parlare di “inclusione” e “didattica inclusiva”. Ma cosa s’intende? Si tratta di una scuola che, sulla memoria di don Milani, non divide gli studenti e pensa a riconoscere le pratiche di apprendimento di tutti e tutte. Una didattica davvero inclusiva non parte mai dal più bravo, ma dall’ultimo, dallo studente che fa più fatica. E la classe inclusiva non si muove finché non si trovano strumenti per insegnare anche all’ultimo del gruppo. Molti direbbero che, in questo modo, si rischia di “rallentare il ritmo” del gruppo intero. È così? Bisogna fare una premessa: dipende tutto dall’idea di scuola che abbiamo. Questa idea del ritmo veloce è tipica di una scuola competitiva. Se pensiamo che la scuola sia prima di tutto un posto dove imparo la storia e la geografia e dove vanno avanti i più bravi, allora questo rischio c’è. Se, invece, crediamo che la scuola sia un luogo dove si impara prima di tutto a essere un buon essere umano, allora dobbiamo ripartire dai nostri studenti con la memoria fragile, da quelli che fanno più fatica, insegnando sia a loro sia a quelli con una memoria di lavoro magnifica a trovare insieme un equilibrio migliore nella società. Ma le leggi italiane che idea di scuola propongono? Una scuola inclusiva, che integra tutti e tutte. La legge 517 del 1977 è uno storico punto di svolta, avendo abolito le classi differenziali e reso l’integrazione un obbligo della comunità scolastica. La legge 104, quella che definisce i diritti delle persone con disabilità, parla di “contitolarità” del docente di sostegno. Poi abbiamo anche la normativa sui bisogni educativi speciali. Insomma, l’idea è che tutti i docenti siano responsabili di tutti gli studenti. È la legge che non permette l’esistenza di una scuola dove il bambino, che non sta alle condizioni imposte dalla lezione frontale, viene portato fuori e rimane con l’insegnante di sostegno. Se succede ancora così frequentemente, è colpa di una certa regia pedagogica. Cosa intende? Il problema è cosa immaginiamo quando parliamo dei docenti di sostegno. Sono formatori per gli studenti? Se è davvero così, prima devono sapere e capire come funziona ogni alunno e che caratteristiche di apprendimento ha. E attenzione: non è solo una questione di istruzione, ma anche di caratteristiche-socioculturali. Suggerisce che l’inclusione debba tenere conto anche del censo e della classe degli studenti? Certo, lo ripeto, non è solo una questione di disabilità o disturbi specifici. Ci sono enormi differenze tra un bambino che fa i compiti con il papà insegnante e la madre medica, dentro alla sua stanzetta, con la stampante e il tablet, rispetto a quello che fa gli esercizi nella cucina di un monolocale con la madre che parla solo una lingua straniera. I docenti devono esserne consapevoli. Quali metodi funzionano, secondo la sua esperienza , per insegnare a studenti di varia estrazione sociale? Innanzitutto, serve che tutti i docenti siano in grado di riconoscere le caratteristiche di ogni studente. Quindi, devono saper leggere una diagnosi. Devono sapere cos’è una memoria di lavoro, la velocità di elaborazione o come funziona l’apprendimento di un bambino con la memoria fragile. Tutti i docenti dovrebbero avere queste competenze di base, a partire dalla scuola dell’infanzia. Ma per il corpo docente, in gran parte precario, la formazione non è sempre alla portata... È una grande verità. Ma la famiglia non è naturalmente competente, dunque deve esserlo la scuola. Altrimenti lasciamo che vadano avanti solo gli studenti che vengono da famiglie che già hanno risorse e condizioni socio-economiche elevate. A proposito di famiglie, cosa ne pensa della possibilità che Valditara ha dato ai genitori di valutare i docenti di sostegno? Sono contraria: si tratta di una iniziativa pericolosa, perché la famiglia – come dicevo – è naturalmente incompetente a valutare queste cose. Manca una visione uniforme per avere una scuola realmente orientata all’inclusione. Ci aiuti a entrare dentro a una classe dove convivono studenti con dsa, bes e disabilità. Quali strategie sono efficaci? La soluzione, intanto, è farli stare tutti in classe. Non farli uscire mai con il docente di sostegno. Dopodiché, i docenti devono utilizzare gli anticipatori cognitivi, la multimedialità e la multimodalità. Ci traduce questi termini? Certo, facciamo un esempio. Uno studente che legge secondo un processo associativo, nel momento esatto in cui vede le parole, le capisce e astrae i concetti. L’85% delle persone funziona così. Quando il docente dice: “Fate l’esercizio a pagina tre”, questi alunni già pensano a una risposta, perché hanno svolto subito il primo processo di comprensione. Al contrario, uno studente che legge e comprende secondo un processo cognitivo procede sillaba per sillaba. Seguendo lo stesso esempio, di fronte alla domanda del docente, mentre i compagni pensano alla risposta, quello studente riflette ancora – più e più volte – sulla domanda, finché non la codifica. E come fare, quindi, con questi alunni? Vengono in soccorso gli anticipatori cognitivi, che permettono di agganciare esperienze pratiche all’ambiente di apprendimento. Ma gli insegnanti devono essere formati per saperlo fare. Una cosa è essere buoni maestri, un’altra è essere esperti dell’apprendimento. La scuola ha bisogno dei secondi. Una buona riforma dell’inclusione, secondo lei, ha bisogno di molti fondi? Certo, servono investimenti per la formazione dei docenti. Ma è anche vero che, nei mesi successivi al terremoto all’Aquila, ho visto con i miei occhi come una buona scuola possa essere fatta anche dentro a una palestra con niente in mano. Al contempo, ho visto pure pessime scuole fatte in istituti iper-tecnologici. Parliamo di educazione digitale. Le nuove tecnologie possono favorire l’inclusione? Certamente sì. Faccio un solo esempio: esistono intere reti di scuole che producono testi personalizzati tramite l’IA. Sono contenuti scritti da docenti e adattati alle esigenze di ogni alunno, grazie agli algoritmi. Si può fare ovunque didattica inclusiva con strumenti che, invece, stiamo demonizzando. Lei, dunque, non è d’accordo con il divieto degli smartphone in classe? Non sono assolutamente d’accordo. Per più motivi. Vietare il cellulare agli studenti equivale a stimolarli a usarlo: è sempre stato così e lo certificano anni di ricerche. L’acqua che scorre non possiamo fermarla. Una strada preferibile, piuttosto, è educare gli studenti con una modalità più pedagogica: invece di vietare il telefono a 13 anni, possiamo fare in modo che gli studenti non accedano solo a certi contenuti. Ma vorrei che ci fosse una squadra ministeriale che lavora su TikTok e sugli altri social a questo scopo. Serve una visione a lungo termine e molto pensiero lento per arrivare a questo. In che senso, “pensiero lento”? È un modo inclusivo di agire in classe. Faccio un esempio. Immaginiamo che io chieda a Marco di prendermi un quaderno dall’armadio e che lui, dopo due passi, si giri e mi richieda cosa deve fare. Il pensiero veloce mi porterebbe a farlo sedere di nuovo e a chiedere il favore a un suo compagno. Il pensiero lento mi impone, al contrario, di interrogarmi sulle motivazioni per cui Marco ha chiesto due volte di ripetere la consegna. Nessuno studente si alza la mattina e dice: “Voglio scrivere e leggere male”. Le cause sono profonde e dobbiamo conoscerle. Per farlo, servono competenze. E, secondo lei, la scuola italiana è abbastanza competente in materia di inclusione? No, direi che ancora non lo siamo a sufficienza.

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

Disabilità e dsa: la scuola può colmare il divario di classe sociale?

Andrea Ceredani