L'estate difficile dei ragazzi Hikikomori, come aiutare le famiglie?

Si chiama “Segmenti consapevoli” ed è un progetto realizzato dalla cooperativa Stripes, Studio-ricerca-intervento- pedagogia extrascolastica. Un acronimo che riassume la filosofia di intervento su quei ragazzi che vivono un periodo di ritiro sociale. Ormai il termine hikikomori è molto diffuso ma il progetto vuole uscire dallo stigma affrontando il tema con la collaborazione di più soggetti tra cui la scuola, l’associazionismo e le neuropsichiatrie. In Italia, secondo l’ultimo studio dell’Istituto Superiore di Sanità, sono tra 50 e i 70mila i giovani che non escono più dalle loro case, spesso dalle loro stanze. Ma questa cifra potrebbe essere solo la parte emersa del problema. Quello che è certo, è che il fenomeno coinvolge intere famiglie. Dafne Guida è la presidente e direttrice della cooperativa Stripes, capofila del progetto Segmenti consapevoli. “Questo progetto è nato da un bando di Fondazione Cariplo 'Attentamente', che è rivolto ai ragazzi dagli 11 ai 19 anni che vivono una condizione di disagio e di ritiro sociale volontario. Siamo partiti due anni fa e abbiamo intercettato, fino ad oggi, circa 800 tra ragazzi e ragazze e, di questi, ne abbiamo presi in carico una settantina accompagnandoli lungo un percorso educativo, psicologico e creativo. Noi siamo a Rho, in provincia di Milano, ma abbiamo attivato una rete che copre 4 territori: Legnano, Abbiategrasso, Magenta e Castano. I ragazzi vengono intercettati sia attraverso le segnalazioni delle scuole, ma anche grazie alle neuropsichiatrie e al terzo settore“. Quali sono i primi passi di intervento con un ragazzo che non esce più dalla sua stanza? Innanzitutto, è molto importante intercettare quanto prima i campanelli di allarme. Il primo tra tutti è il rifiuto, inizialmente saltuario, di andare a scuola per sottrarsi al confronto e per evitare di misurarsi anche socialmente. A volte sono proprio quei ragazzi che hanno un alto funzionamento cognitivo e che a scuola hanno voti molto alti, che non riescono a entrare in relazione con gli altri e a sopportare l’ansia da prestazione. Alla base spesso ci sono anche episodi di bullismo e cyberbullismo a cui il ragazzo agisce sottraendosi. Parlo al maschile perché nella maggior parte dei casi sono ragazzi, e non ragazze, a entrare in un ritiro sociale che può durare anche anni. Noi non li costringiamo a uscire ma costruiamo, anche attraverso gli strumenti digitali, dei momenti di contatto in contesti protetti: supporto psicologico online, corsi da remoto di arte, fumetto e scrittura creativa. Inizialmente li teniamo agganciati attraverso l’unico canale di comunicazione possibile. Poi affianchiamo al ragazzo un educatore domiciliare. Si tratta di una figura che cerca di entrare in relazione, senza forzarla, con il ragazzo. Inizialmente conosce la famiglia, che è coinvolta nel progetto insieme ai servizi sociali e alla scuola, poi cerca di fare da ponte. Spesso capita che l’educatore resti per mesi fuori dalla porta, ma è anche successo che la porta è stata subito aperta. Ci racconta delle storie che possono essere emblematiche? Dario ha 15 anni. Ci è stato segnalato dalla neuropsichiatria territoriale quando era in ritiro sociale già da 4 mesi. È molto importante intervenire entro i 6 mesi. Abbiamo parlato con la famiglia subito, non sapevano più cosa fare, le avevano provate tutte: avevano anche staccato tutti i dispositivi digitali. L’unico effetto era stato uno scoppio di aggressività del ragazzo nei loro confronti, poi la chiusura era diventata totale. Il braccio di ferro con il ragazzo in ritiro è sempre una strategia perdente, bisogno cercare dei compromessi. Quando ci siamo rivolti agli insegnanti di Dario ci siamo resi conto che anche per loro era necessaria una formazione per rapportarsi a questo fenomeno. L’homeschooling in questi casi è deleteria. È intervenuto l’educatore che, da una parte ha aiutato la famiglia a gestire il problema con gli psicologi specializzati, dall’altra ha tenuto agganciato il ragazzo alla scuola facendo da mediatore. I nostri educatori diventano una figura centrale perché tengono insieme quei pezzi, che immediatamente di sgretolano davanti al ritiro sociale. Siamo in piena estate, immaginiamo che questo sia un momento molto critico per i ragazzi Hikikomori e le famiglie. L’estate è per tutti sinonimo di vita sociale e libertà. Per questi ragazzi e per le loro famiglie è ancora più difficile affrontarla. In tanti rinunciano del tutto agli spostamenti per non lasciare il ragazzo da solo a casa. Ma il nostro consiglio è sempre uno: non bisogna cedere e, se si ha la possibilità, bisogna sfruttare ogni occasione. È importante quindi che la famiglia sia chiara e unita nel dire al ragazzo ritirato, sempre con estrema empatia e non in modo giudicante, che si parte tutti insieme. Quando ci si riesce, è una ottima occasione di emersione e quindi di socialità e di vita condivisa. Purtroppo, però, molto spesso questo non accade, e tutti restano a casa per non lasciare il ragazzo da solo. Questo è uno dei momenti più difficili per tutti, perché la vita di un intero nucleo ruota attorno al disagio mentale di uno. È facile che fratelli e sorelle si sentano vittime di tutto il sistema ed è per questo che sono molto importanti i gruppi di aiuto. Cosa scatena questa chiusura? Le dimensioni del problema sono tante e non esiste una sola causa scatenante. Quello che accomuna tutti questi ragazzi è l’ansia. L’ansia sociale e l’ansia da prestazione sono due cose diverse che vanno identificate quanto prima. Già dalle scuole elementari emergono i primi episodi, quando l’ambiente scolastico viene vissuto in modo particolarmente ostile. Un genitore che si rende conto che il proprio figlio vive con ansia eccessiva le prestazioni e le valutazioni scolastiche ma anche sportive, deve chiedere aiuto e farsi supportare quanto prima. Un genitore deve preoccuparsi, quando vede che il proprio figlio resta chiuso nella sua stanza senza misurarsi con i coetanei e quando lascia le attività extrascolastiche che prima faceva con piacere. Quando questi segnali risultano evidenti, è il momento giusto per farsi aiutare da realtà come la nostra. Prima si agisce e meglio è. Per la nostra esperienza è difficile che una famiglia riesca da sola a riportare il ragazzo ad una vita normale. Voi siete un esempio di welfare comunitario. Noi siamo centrati sulla alleanza territoriale con diversi soggetti. I servizi sociali e le neuropsichiatrie vedono il problema quando è già conclamato. Ma per la prevenzione serve il coinvolgimento di scuole e terzo settore. È importante che insegnanti, allenatori, educatori sappiano che esistiamo e che possono segnalarci i singoli casi. Solo con un approccio vigile si può garantire una presenza costante.

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Emanuela Ambrosino