"Non sono un artista ma un testimone”, dietro le foto di Gianni Berengo Gardin

“Non sono un mito, sono un artigiano. E non sono un artista, ma un testimone”. Inizia così una delle ultime interviste di Gianni Berengo Gardin, che è andato via in silenzio, com’era nel suo stile. Senza clamore, senza enfasi, esattamente com’erano le sue fotografie: mai urlate, mai invadenti, ma capaci di raccontare un paese intero per più di 70 anni. Nato a Santa Margherita Ligure nel 1930, si era formato a Venezia. Un autodidatta che ha fatto della discrezione la sua cifra e della verità il suo orizzonte. “Io non costruisco le immagini, le raccolgo”, diceva, sulla scorta del modo di fotografare e di vedere il mondo di Henri Cartier-Bresson. E proprio a Bresson, in un’intervista al Guardian, Berengo Gardin tributò l’omaggio più grande. “Per me, Cartier Bresson è Dio”. Da subito, dalle prime immagini di questo giovane fotografo ospitate sul Mondo di Mario Pannunzio, si notava uno sguardo che cercava lo straordinario, ma solo se faceva parte dell’ordinario. Era un occhio vivo, che prima di prendere posizione -e la prendeva, eccome- diceva a se stesso che le immagini non devono gridare, ma limitarsi a raccontare. E siccome per Berengo Gardin fotografare è un atto politico, la fotografia per lui era racconto, denuncia, memoria. Nel 1969, con Carla Cerati, firmò Morire di classe, un viaggio durissimo dentro i manicomi italiani. Quelle immagini mostrarono all’Italia l’orrore di luoghi dimenticati e contribuirono alla battaglia per la chiusura degli ospedali psichiatrici. È sua anche l’espressione forse più impattante della battaglia contro le grandi navi a Venezia. Amava la Serenissima, Berengo Gardin, sua città di adozione e luogo di nascita di suo padre, e riteneva il passaggio dei mastodonti da crociera in laguna un insulto non solo a quel luogo per lui quasi sacro, ma a tutta la comunità. Dedicherà a Venezia, in tutto, circa sessantamila fotografie. Era un umanista, e come tutti gli umanisti ha sempre cercato di mettere l’uomo al centro delle sue fotografie; l’uomo come forza motrice e, al tempo stesso, parte di un tutto in continua evoluzione e in perenne cambiamento. È sempre stato lontano dall’idea della fotografia come espressione artistica o esercizio puramente estetico: la bellezza, quando e se viene trovata, esiste in quanto parte della verità. Contrariamente a molti fotografi di reportage o autori di street photography, lui non ha mai scattato di nascosto. Voleva farsi vedere, osservare come le persone, anche davanti a un obiettivo, fossero capaci di abbassare la maschera per mostrarsi davvero. Se non volevano essere fotografate, Berengo Gardin abbassava la macchina. Ha attraversato mezzo secolo di storia italiana: le fabbriche, le strade, le case, le minoranze, l’architettura, il lavoro e la fatica. Ha fotografato gli zingari a Firenze, i bambini nei cortili, i passeggeri dei vaporetti veneziani. “Non cerco l’immagine perfetta, cerco quella giusta”, spiegava. Quella che contiene un respiro, una domanda, un dubbio. E se è vero che la fotografia è l’arte di fermare il tempo, Berengo Gardin ha raccontato l’Italia che si trasforma: dalle grandi opere di Renzo Piano, alla Brion Vega di Scarpa. E poi oltre 250 libri, mostre in tutto il mondo, premi, onorificenze. Ma lui continuava a essere schivo: solo lavoro, solo ascolto, solo racconto. Berengo Gardin è stato il fotografo dei margini, delle contraddizioni, delle cose che cambiano mentre sembrano restare immobili. Il suo archivio è la memoria visiva di ciò che siamo stati. Ha raccontato l’Italia senza alzare la voce, con la pazienza di chi sa aspettare il momento giusto e la sensibilità di chi riconosce la bellezza anche dove non è evidente. Nel tempo dell’immagine veloce e distratta, delle fotografie che durano solo per il tempo di essere scartate, le sue opere restano lì, ferme, a ricordarci che la realtà — se guardata davvero — ha ancora molto da dire.

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Emiliano Scalia