Quando è la normalità a minacciare la nostra quotidianità

Cerco l’elenco degli articoli più letti negli ultimi giorni sul primo quotidiano nazionale. Molti riguardano la morte priva di segni premonitori della povera Simona Cinà. Nei giorni precedenti, faceva la parte del leone l’uccisione del figlio da parte della madre a Gemona del Friuli, ma avevano impressionato anche gli incidenti provocati dai due anziani alla guida, entrati contromano in autostrada oltre alle peripezie sentimentali di un attore che interpreta la figura del sacerdote in una serie molto popolare. La scala dell’interesse sembra determinata dalle “similitudini”, dalla prossimità o meglio dalla presunta prossimità. Proprio questa deve essere considerata la “notizia”, se vogliamo davvero analizzare l’impatto dei fatti di cronaca di questi giorni sulla sensibilità collettiva. Ovviamente non tutti uccidiamo figli riottosi o imbocchiamo autostrade contromano, ma avvertiamo senza dubbio che i soggetti coinvolti sono persone ordinarie, come noi, non ci sono mostri, semplicemente individui in qualche modo “spezzati” o coinvolti in una delle tante negatività rese possibili dall’accelerazione dei processi e dal conseguente aumento degli eventi. Più velocità, più eventi, più logoramento, più imprevisti, spesso gravi. Nel flusso di notizie non clamorose sono coinvolti individui che fino a un attimo prima erano indistinguibili da noi, persone il cui ordinario, che pareva immodificabile, all’improvviso è diventato straordinario, lo stesso che potrebbe sfiorarci da un momento all’altro, per questo cerchiamo di “indagare”, sia pure ingenuamente perché gli accadimenti non sono ripetitivi, al massimo possono esservi similitudini, più apparenti che reali. Il delitto di Gemona, ad esempio, la vicenda più grave e inquietante del nostro elenco, connotato tragicamente, continua a catturarci da giorni per il suo rimando alle nostre famiglie, interessate da tensioni, spesso mascherate a prezzo di grandi fatiche, che non di rado sfociano nella violenza, per fortuna con gradazioni diverse. Sentire raccontare a quella madre che il figlio non voleva saperne di morire, che ci sono volute sei ore prima che spirasse, ci risucchia in una spirale di “normalità”, una strana normalità capace di partorire qualsiasi cosa, anche le più impensabili e ci costringe a domandarci quando “dista” la nostra vita da quelle tentazioni. Lo stesso vale per la vicenda di Simona Cinà, anche qui una piattaforma di normalità che all’improvviso si carica di mistero e partorisce un epilogo che lascia senza fiato. Se misurassimo lo scarto tra l’inizio di quella festa, le immagini di serenità della ragazza pubblicate nei giorni successivi, e il suo epilogo, ci troveremmo di fronte un abisso, impossibile da colmare. Non esiste nessun segno premonitore, ma uno stato di regolarità che non prelude a nulla che non sia un sereno ritorno a casa dopo la festa, al massimo qualche piccola alterazione, legata a un bicchiere di troppo o ad altro. Proprio a questo punto arrivano le domande su di noi, che pure non eravamo presenti a quell’evento e non possiamo avere fatto nulla di male. In realtà, quando cerchiamo di capire cosa possa essere successo in quella terra di mezzo, ci stiamo proprio domandando chi siamo in realtà noi umani e quanto sono lontani da noi quegli effetti. Anche il camionista che piomba sulla colonna di automezzi fermi sull’Autostrada del Sole, in prossimità dell’uscita di Montevarchi, uccidendo tre persone innocenti, è uno di noi, come lo era il suo collega, mio paziente, tradito da un colpo di sonno dopo una giornata di guida, che aveva ucciso un ragazzo di venti anni reduce da una giornata di lavoro. Uno di noi anche il trentenne che correva come un pazzo per raggiungere gli amici al mare. Sono morti tre ciclisti. Possiamo allungare l’elenco a dismisura, ma è evidente che la normalità è il vero luogo delle infrazioni, perché potrebbe già essersi ammalata, in un modo subdolo, però, con quella progressione lenta che non permette di cogliere il crinale che separa il prima e il dopo. Diana lasciata morire dalla madre, che doveva uscire con il fidanzato, il ragazzo di Paderno Dugnano che annienta la famiglia e poi reagisce quasi con indifferenza. I due protagonisti, la madre e il giovane assassino, sembravano non rendersi conto di ciò che avevano fatto, forse neppure oggi se ne rendono conto, così come non ce ne rendiamo conto noi, che continuiamo a sottostimare sintomi che si sono insinuati nella normalità chiedendo e ottenendo cittadinanza. Per questo un ventenne, dopo avere ucciso una persona sulle strisce, può dirmi, come se fosse la considerazione più normale del mondo, che il primo pensiero era stato il timore del ritiro della patente. Ecco perché la cronaca minuta, più degli eventi clamorosi, potrebbe diventare la regina della comunicazione. La cosiddetta “normalità”, infatti, si candida a diventare la principale rivelatrice della parte più riposta di noi, per questo dovrebbe anche essere la prima sede dell’attenzione delle discipline che si occupano della psiche umana. Le risposte che cerchiamo si nascondono spesso nelle sue pieghe, ma forse non si nascondono nemmeno, siamo noi a sottovalutare questa prospettiva, passando oltre perché in fondo la “normalità” è senza peccato, così è lecito limitarsi a guardarla da lontano. Eppure, Blaise Pascal non era dello stesso parere, forse senza saperlo aveva intuito l’epilogo di questa corsa a rotta di collo, perché, diceva, “una città, una campagna, di lontano è una città o una campagna; ma, a misura che ci si avvicina, si scorgono case, alberi, tetti, foglie, erbe, insetti, zampe di insetti all'infinito”. La normalità vista da vicino non somiglia mai a una bella skyline.

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Quando è la normalità a minacciare la nostra quotidianità

Domenico Barrilà