Misure alternative e permessi di lavoro: il carcere in Italia funziona ancora?

Emanuele De Maria, venerdì 9 maggio, è evaso dal carcere di Bollate, a Milano. Al termine di una giornata di lavoro all’hotel Berna, dove era assunto a tempo indeterminato, non è tornato nella casa di reclusione e avrebbe commesso un femminicidio ai danni di Chamila Wijesuriya prima di suicidarsi, il giorno successivo, gettandosi dalle terrazze del Duomo. Il suo caso ha riacceso il dibattito sulla sicurezza nelle prigioni, sui permessi di lavoro esterno al carcere e – allargando il raggio – sulle misure alternative alla detenzione. Per eventuali indagini su De Maria, il ministero della Giustizia ha chiesto la documentazione necessaria, ma il Tribunale di sorveglianza ha già ribadito in una nota che il suo percorso “si è mantenuto sempre positivo anche nei due anni di lavoro presso l’albergo Berna, senza che nulla potesse lasciare presagire l’imprevedibile e drammatico esito”. Per capire, invece, le condizioni delle altre decine di migliaia di detenuti che scontano la pena dentro alle carceri italiane, servono i numeri. Quelli forniti dal ministero della Giustizia e quelli delle ispezioni dell’osservatorio Antigone, che non sempre combaciano. Lavoro dentro e fuori dal carcere Intanto, i dati sul lavoro. Nel 2023, dalle ispezioni dell’osservatorio di Antigone in 99 istituti, è emerso che meno di un detenuto su tre lavora e la percentuale è in lieve aumento sul 2022. Al contrario, le persone dipendenti da datori di lavoro esterni – come era Emanuele De Maria – sono soltanto il 3,2%. Quelle coinvolte in progetti di formazione sono il 10,6%. Per la popolazione carceraria lavoratrice, non si notano differenze sostanziali con il dato messo a disposizione dal ministero della Giustizia: 33,3%. La percentuale delle persone dipendenti da datori di lavoro esterni sale, invece, secondo i dati del Ministero, al 5%. Tra i detenuti lavoratori, comunque, oltre l’85% è dipendente dall’amministrazione penitenziaria. In generale, dunque, per questioni che riguardano la cultura carceraria e la diffidenza delle imprese, sono poche le persone che lavorano fuori dal carcere. Ma quanto è alta la loro recidiva? Alla domanda risponde il Cnel che stima, per detenuti che lavorano dentro e fuori dalle prigioni, una reiterazione di reati al 2%. Molto più bassa di quella, fissata al 70%, di chi sconta la pena senza uscire dal carcere. Non esiste solo la detenzione Ma il carcere non è l’unica forma di esecuzione di una pena. Anzi, non è nemmeno la più frequente: in Italia, secondo i dati del ministero della Giustizia, i detenuti sono 61.916 , mentre le persone che scontano pene tramite misure alternative alla detenzione o di comunità sono 95.315 . Si tratta di affidamento in prova, semi-libertà e detenzione domiciliare. A chiedere un ricorso sempre minore alla detenzione è anche il Consiglio d’Europa, che ha più volte raccomandato agli Stati membri di promuovere l’uso di misure alternative al carcere. Il motivo è presto detto. In primis, le carceri sono sovraffollate: a fronte di quasi 62mila detenuti, in Italia i posti di capienza sono 51.300. E, in secondo luogo, il tasso di recidiva di chi è sottoposto a misure alternative è molto più basso: circa il 3%, contro il 70% dei detenuti in carcere . Senza contare che meno dell’1% delle misure alternative viene revocato per commissione di nuovi reati. "Non dimenticherò mai la prima busta paga" Quando ha aperto la prima busta paga, dopo mesi di carcere, Raffaele è quasi scoppiato a piangere. Si era appena unito al non folto gruppo di detenuti lavoratori in Italia. E, dentro la busta, c’erano 70 euro. “Ero emozionatissimo – confessa a Sky tg24 Insider – a me sembravano 700”. Oggi ha 62 anni, ha scontato tutta la sua pena e lavora ancora come dipendente per la cooperativa sociale Opera in fiore, dalla quale era stato assunto durante la sua reclusione nel carcere di Opera, a Milano. Tra le mura della prigione, aveva iniziato come “spesino”, raccogliendo le spese dei detenuti per inviarle alla “matricola” che prepara gli ordini: “Spesso ci compravamo cibo e poco altro – spiega – Ma con la mia prima busta paga ricordo che mi comprai uno shampoo, il dopo barba e del dentifricio per curarmi”. Poi, arrivò l’occasione di costruire un maneggio interno alla struttura e Raffaele fu subito impiegato a tempo pieno: “Guadagnavo 500-600 euro al mese. Non mi piaceva stare fermo, facevo anche altri lavori come volontario”. Finché non arrivò l’offerta della cooperativa sociale “Opera in fiore”, che lo assunse come giardiniere: per la prima volta, sarebbe uscito da Opera. Dopo quattro anni dalla reclusione. “Quattro anni che stavo a Opera e non conoscevo Milano. Ricordo ancora la sensazione strana del primo giorno. Sono uscito, ho preso il bus e mi sono detto: ‘Ora dove andiamo?’. È stata una bellissima esperienza”. Per lui, come per molti altri, il lavoro è una questione di dignità più che di retribuzione: “Quello che è successo con la persona evasa da Bollate è doloroso per tutti, ma è un caso isolato. Siamo in tanti a cercare un lavoro interno ed esterno dalla cella, a volerci dare da fare. All’inizio il guadagno non sembra mai tanto, ma per me è stato come riprendere in mano la mia vita”. Detenuti, lavoratori e soci Le cooperative sociali “Opera in fiore” e “Officina dell’abitare”, che hanno dato un lavoro a Raffaele, hanno assunto in oltre vent’anni più di 150 persone. Molti non sono solo collaboratori o dipendenti, ma soci a tutti gli effetti. “Lavoriamo con detenuti e con persone con disabilità – spiega la presidente Elisabetta Ponzone – Ma, oltre che dipendenti, sono soci che partecipano a tutta la vita della cooperativa e votano la presidente. Un pezzo del nostro gruppo è anche loro: così, si sentono molto più responsabili e partecipativi”. Le persone detenute vengono selezionate dentro al carcere e, poi, iniziano a uscire dalla casa di reclusione per lavorare. “Il modello è imprenditoriale perché, per pagare gli stipendi, dobbiamo essere sostenibili. Ma è imprenditoria sociale, perché dobbiamo insegnare un lavoro per il reinserimento sociale”. E sul ruolo, fondamentale, del lavoro per le persone che devono scontare una pena, Elisabetta Ponzone non ha dubbi: “Non si tratta di quanto sia importante per le persone detenute, ma per tutti noi cittadini. Anche chi non deve scontare pene, senza lavoro e senza ricevere uno stipendio, come fa a vivere? Chi si trova in carcere ha sbagliato in passato, non ci sono dubbi, ma dobbiamo cambiare paradigma culturale nei loro confronti. E il lavoro, dignitoso e regolare, fa la sua parte per permettere il reinserimento sociale”.

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