Dentro allo studio del dottor La Harpe, dove si accompagna alla morte in Svizzera

In Svizzera, di fatto, si può. Si può scegliere liberamente di mettere fine alla propria vita se c’è una malattia invalidante e, quindi, vivere diventa fonte di sofferenza eccessiva. Non è necessario essere malati terminali e non c’è nessun paletto formale, nessun requisito da soddisfare come in Italia. Come molti sanno, la Svizzera è ormai meta di molte persone che, nel loro Paese, non possono accedere alle procedure di suicidio assistito perché non è consentito e noi siamo andati a Ginevra per incontrare il dottor Romano La Harpe, copresidente della branca svizzero/francese di Exit, un’associazione che aiuta le persone che vogliono morire a farlo con serenità e senza rischi. Contrariamente ad altre realtà, Exit non ha locali adibiti ad ambulatorio. In sostanza, il suicidio non avviene nella loro sede ma a casa della persona che ha deciso di morire. È una procedura ormai consolidata, che dura dalla loro nascita, nel 1983. Il dottor La Harpe ci riceve nella sala riunioni dell’associazione, in un edificio piuttosto anonimo alla periferia della città. All’interno, il presidente e un paio di segretarie. “Abbiamo pochissimi dipendenti, forse cinque o sei. Nessuno full time. Tutti gli altri, accompagnatori compresi, sono volontari”. Le spese, a parte il mantenimento della sede, sono poche. “Come sopravvivete?”, gli chiediamo. La sola Exit della svizzera francese conta 35.000 associati e ognuno di loro paga una quota e, in più, ci sono le donazioni. La Harpe non ha nulla del medico, così come l’edificio che ci ospita non ha nulla dell’ospedale. Ci racconta storie e procedure con la naturalezza di chi si occupa di queste cose in un Paese che gestisce l’approccio alla morte in maniera laica e del tutto privata, in cui la dimensione pubblica della scelta, semplicemente, non esiste. La Svizzera non ha una regolamentazione legislativa sull’aiuto al suicidio. Non ci sono leggi né norme, l’architrave su cui si poggia è il Codice penale. “Potremmo permettere a chiunque l’accesso al sistema, minorenni compresi”, continua La Harpe “l’unica condizione che ci siamo dati è che ci sia una sofferenza tale che impedisca al paziente, alla persona, di proseguire la sua vita in maniera dignitosa”. Che ci siamo dati, dice. Perché, in effetti, l’unico motivo per cui il suicidio assistito diventerebbe perseguibile penalmente è nel caso in cui gli inquirenti -che comunque intervengono dopo ogni suicidio- ravvedessero un vantaggio di qualche genere per chi ha assistito il paziente nel suo ultimo viaggio. “Tutti quelli che chiedono di partire ricevono la visita di un volontario di Exit, l’accompagnatore. Io stesso ho assistito diverse persone. L’accompagnatore, che è in genere una figura con un profilo sanitario valuta se la persona è pronta e, in caso positivo, fissano una data insieme. Fino all’ultimo secondo, ovviamente, la persona può decidere di sospendere, rinviare o annullare del tutto la decisione. Con un certificato prodotto da uno dei medici dell’associazione, l’accompagnatore va in farmacia, compra il barbiturico e lo porta nel luogo scelto. Lo mette a disposizione della persona che, sempre e comunque, deve somministrarsi la sostanza in maniera autonoma. In genere si scioglie in un bicchiere d’acqua”. Exit, a livello nazionale , ha più di 180.000 associati, tutti cittadini svizzeri. Le richieste nel 2024 sono state circa 3.500, di cui 1.500 accettate e 1.235 effettivamente esercitate. In Italia le richieste arrivate nel 2024 sono poco più di 16.000, secondo l’Associazione Luca Coscioni. Quelle portate a termine, nel momento in cui scriviamo, sono sei. Numeri che parlano di un altro mondo e di un altro approccio. Ancora La Harpe: “Ero un medico del lavoro, e quando son andato in pensione non ho mai avuto dubbi sul fatto che questa fosse la direzione giusta; aiutiamo le persone a esercitare un loro diritto e, anzi, quando è possibile cerchiamo di scoraggiare chi si rivolge a noi. Ma morire come si vuole è un diritto di tutti che nessuno, individuo o Stato, dovrebbe negare”. Rispetto all’Italia, e all’idea che noi abbiamo di tutte le procedure che sono necessarie per arrivare alla stessa conclusione, l’impressione è che sia tutto più semplice e naturale; non ci sono commissioni che devono mettere un timbro, non ci sono uffici, lungaggini burocratiche o corridoi ministeriali. C’è la volontà della persona, che può cambiare un secondo prima. “Le è mai capitato di assistere a un mutamento di intenzione?”, chiediamo a La Harpe. “In realtà una sola volta, con un’anziana signora che, quando sono andato ad assicurarmi che fosse davvero pronta, ha preferito rinviare. Mi dia un paio di settimane per pensarci meglio, dottore. Sono passati due anni e non l’ho più sentita. Per fortuna”.

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