Minori violenti, lo psicologo: "Le famiglie vanno aiutate, non giudicate"

Da Nord a Sud, passando per Napoli, dove il fenomeno vede una grande quantità di armi facilmente reperibili, i minori che compiono atti di violenza per motivi banali, i ragazzini che escono con un coltello in tasca, in qualche caso anche con una pistola, sono in aumento. Hanno fatto scalpore i casi di Emanuele Tufano, Santo Romano, Arcangelo Correra, uccisi dalla follia delle armi in mano ai giovanissimi, a Napoli. In quel caso pistole. Ma ferimenti, tra coltelli e altre armi improprie, che vedono protagonisti adolescenti, sono ormai all’ordine del giorno, e non solo in contesti difficili e contigui alla criminalità: basta sfogliare le notizie che provengono da tutta Italia. In tanti chiedono pene più severe. Ma perché e come accade, in quali contesti, quanto davvero è diffuso il fenomeno, su cosa dobbiamo riflettere noi adulti? Lo chiediamo ad Armando Cozzuto, psicologo e psicoterapeuta, presidente dell’Ordine degli Psicologi della Campania. Quanto è sentito il tema della violenza e dell’uso delle armi tra i giovanissimi? È capitato a me personalmente ma anche a molti colleghi: come Ordine degli Psicologi abbiamo registrato le richieste dei nostri iscritti, che sono oltre 11mila, la maggior parte di esse chiede una formazione specifica sui temi della violenza e della devianza giovanile. Un bisogno che sempre più frequentemente nasce dai genitori che non sanno come arginare queste situazioni. Tra l’altro, io lavoro anche in un consultorio di un’unità operativa materno-infantile e lavoro proprio con ragazzi e famiglie e posso dirle che vedo tante di queste situazioni: violenza intrafamiliare, violenza tra pari e violenza cosiddetta del branco. Perché aumentano questi fenomeni? Il nostro contesto è quello che il famoso sociologo Zygmunt Bauman definiva la “società liquida”, dove i confini e i riferimenti sociali si perdono, dunque una società nella quale non c’è più spazio per la fragilità e il fallimento, che invece sono aspetti fondamentali perché ci mettono di fronte all’idea del limite. E il limite è importante perché ci restituisce il concetto per il quale non siamo onnipotenti. Molto spesso questi ragazzini, così come anche i loro nuclei e contesti familiari, non sono pronti a confrontarsi con l’idea del limite e non trovano altra strada se non sfidarlo, o negarlo. E quindi, mettono in atto dei comportamenti o violenti o pericolosi. Spesso assistiamo a ragazzi persi, senza riferimenti. Un tempo ce la siamo cavata perché i fenomeni sociali erano meno complessi. Poi c’è stato il Covid… Noi purtroppo abbiamo una memoria corta e a volte dimentichiamo che anche il Covid è andato ad accelerare una serie di processi. Ho visto ragazzi che hanno vissuto un salto generazionale, formativo, anni nei quali quei pochi riferimenti che c’erano, la scuola, i contesti sportivi, sono venuti meno. Esistono tantissimi casi di convivenza forzata all’interno dei nuclei familiari e uscire di casa, poter svolgere attività all’esterno consentiva a quel nucleo di mantenere un certo equilibrio: con il Covid sono saltati tutti gli equilibri. L’idea di confrontarsi con l’indefinito, cioè con il fatto che all’improvviso ti arriva un virus, tu non puoi uscire di casa e rischi di morire, ha spinto molti ragazzi a ridurre le progettualità e a vivere alla giornata. Spesso le sofferenze dei ragazzi trovano un contenimento attraverso il confronto tra coetanei: vedo che tu rispecchi la mia sofferenza, che è uno strumento potentissimo perché il dolore è trasformativo. Quando non si riesce a vivere il dolore perché mancano situazioni nelle quali possa essere accolto, si attiva un’altra emozione, molto più superficiale ma molto più arcaica: la rabbia. La rabbia fa agire ma può anche essere distruttiva… Assistiamo in continuazione a episodi del genere, mentre mancano spazi di aggregazione e contenitori sociali, ma manca anche uno spazio di supporto alle famiglie, alle scuole. Qui in Campania abbiamo lo psicologo di base: è stata la prima Regione in Italia a introdurlo ed è una figura che al pari del medico di medicina generale e del pediatra può intercettare una forma di disagio e può contenerla, evitando che degeneri. Adesso stiamo lavorando anche alle selezioni per un servizio di psicologia scolastica, che serve tantissimo, ma siamo tra i pochi Paesi d’Europa a non averlo. Spesso si parla delle carenze della famiglia e della scuola. Lei è d’accordo? Sicuramente oggi la società è cambiata, in più il mondo va molto veloce anche per la presenza di Internet e per il fatto che molti giovanissimi sono iperconnessi: famiglie e scuole vanno supportate, non giudicate, altrimenti il rischio è che il disagio dei ragazzi non trovi più accoglienza e anche contenimento, perché se io trovo come unico spazio in cui mi sento riconosciuto, quello nel quale c’è la prepotenza e il sopruso, metterò in atto una serie di comportamenti di questo tipo. Molto spesso questi ragazzi - so che è retorico dirlo, ma è così - nascondono fragilità che sono infinite e se in questo mondo che va veloce, riesco ad accedere più facilmente a un’arma, ecco che le cose possono precipitare. Esiste un identikit di massima dell’adolescente che compie atti di violenza? No, non può esistere, perché il profilo psicologico di una persona è estremamente variegato. I motivi che spingono a usare violenza possono essere tanti, così come i fattori di rischio. Il ragazzino che esce col coltello può essere quello che vive in un contesto socialmente svantaggiato, in una famiglia dove magari non c'è lavoro, ma anche il figlio di buona famiglia che vive con la noia e l'apatia, senza riuscire a gestire tutta una serie di carenze. Mi è capitato di avere in terapia ragazzini che avevano già tutto, quindi mancava una componente fondamentale che è il desiderio. Altri fattori di rischio, oltre allo svantaggio socioeconomico, possono essere la condizione emotiva e il clima emotivo che si vivono all'interno del nucleo familiare, il contesto scolastico. Una persona con fragilità si “arma” per proteggersi o per raggiungere uno status rispetto ai suoi coetanei: io sono il leader, il bullo. I fattori di rischio sono tanti, ma sono pochi invece i fattori protettivi, e talvolta mancano del tutto. Quali sarebbero? Quelli che passano attraverso gli interventi di sistema che garantiscano l'accoglienza, la possibilità per questi ragazzi di essere ascoltati, un aiuto nell'orientamento e nella formazione, più facile accesso allo sport. Per farle capire il grande bisogno che c’è: in un anno, abbiamo effettuato 25mila colloqui in Campania con il servizio di psicologo di base. Spesso ci si accanisce nei confronti delle famiglie e mi sono sempre chiesto: ok, ci sono sicuramente tante famiglie che non funzionano, ma ripetere sempre che la responsabilità è delle famiglie, a che serve? Magari potremmo interrogarci su come possiamo sostenerle, queste famiglie.

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