Il Natale degli alluvionati sull'Appennino: "Viviamo come nel Medioevo"

“Vivo da oltre un anno e mezzo come nel Medioevo”. Secca la riflessione. Il tono pacato delle parole non ne cela l’amarezza profonda. Malgrado il freddo di metà dicembre è una giornata di sole. E, dopo l’alluvione, le condizioni del tempo non sono più un dettaglio da queste parti. Ogni volta che piove torna la paura. Nel suo podere ‘I Fondi’, a Rocca San Casciano sull’Appennino Forlivese, Gianni Fagnoli, 44 anni, ha in mano un decespugliatore. Ha finito di sfalciare il campo. Sono tre ettari. Abbozza un sorriso. “Mi viene da ridere a pensarci. Per sfalciare tre ettari con il decespugliatore ci vuole veramente della passione. Quando il terreno era accessibile, con il trattore facevo tutto in due giorni. Adesso invece, a mano, servono tre settimane di lavoro. Tenga presente che va fatto almeno quattro volte all’anno”. Con una fatica notevole Può immaginare, Con il decespugliatore si lavora come dei somari. Ma l’erba bisogna tagliarla necessariamente, altrimenti soffoca le piante. Come vanno le cose a un anno e mezzo dall’alluvione? Siamo messi male, molto male. La mia è un’azienda agricola individuale, non ho dipendenti faccio tutto da solo. Tutt’ora sono isolato, tanto che vengo qui a piedi. Quello che posso fare lo faccio a mano, perché gli attrezzi sono finiti sotto le frane e attualmente sono irrecuperabili. Vivo davvero da oltre un anno e mezzo nel Medioevo. Arrivo qui nel mio terreno nell’unico modo possibile: a piedi. Lavoro senza alcun macchinario. Raccolta della frutta compresa, nei secchi portati su due alla volta. Fino alla strada provinciale. Perché la sua azienda è ancora isolata? C’è solo una strada poderale di circa 150 metri per attraversare un bosco e arrivare al campo. Nel maggio del 2023, con l’alluvione, si è completamente smembrata. Ad oggi, alla mia azienda, manca un accesso. Consideri che la mia coltivazione è in mezzo a un bosco. E qui sono collassate intere porzioni di terreno. Lavorare è diventato piuttosto impegnativo. Mia moglie fa un altro mestiere, è cameriera, ma mi ha sempre dato una mano. Abbiamo un figlio di 14 anni. L’anno scorso l’alluvione si è portata via l’annata, la situazione economica è davvero difficile. E abbiamo dovuto fare fronte a tutti gli adempimenti contributivi, fiscali, come se nulla fosse successo. Capisce bene che anche volendo è improponibile andarsi a indebitare per fare interventi di qualsiasi tipo. Come li ripago? Siamo in collina e il mio podere ha 250 metri di dislivelli. Una parte di terreno con pini neri alti 30 metri si è come liquefatta e ha innescato una valanga vera e propria. Si è trascinata giù tutto, per mezzo chilometro. Ma anche altre frane, devastanti, hanno travolto l’azienda. Una di queste ha attraversato il piazzale degli attrezzi e li ha scaraventati a valle. Non ho nemmeno idea se funzionino ancora. Ci vorrebbe un elicottero per recuperarli. I problemi, poi, vanno oltre. Il nostro Appennino si sta squagliando, anche in questo momento. Gli aiuti economici sono arrivati? Nulla di nulla. E non sono l’unico in questa situazione. A che punto sono i risarcimenti? Io sono alle prese da un anno con la perizia necessaria per entrare nell’ordinanza Figliuolo. Però i tempi sono lunghissimi. Già trovare i tecnici in grado di redigerla è stata un’odissea. Nel frattempo, la situazione peggiora sempre. Le alluvioni successive. Noi le chiamiamo per numero. Con la terza e la quarta alluvione, settembre e ottobre di quest’anno, tutte le frane che c’erano si sono aggravate e se ne sono prodotte di nuove. Ma non solo. Con le piogge della scorsa settimana c’è acqua ovunque. Il terreno ha una saturazione estrema. E in una condizione del genere, adesso, si va di nuovo incontro all’inverno. Molti, in genere, auspicano l’arrivo della neve per avere il Natale imbiancato. Qui, se fa la neve, è un disastro. L’Appennino non è come la pianura dove, quando è risolto l’allagamento, si riparte. La frana è un movimento dinamico e fino a quando non esaurisce il proprio percorso non si ferma se non gli si mette un freno, un tampone, un argine. Va detto in aggiunta che qui tutto il sistema di drenaggio e regimazione delle acque è saltato con la prima alluvione. Che tipo di interventi è riuscito a fare? Io ho provato a ripristinare quello che ho potuto. A mano. Ho rifatto i fossi riprofilando il più possibile il terreno. A qualcosa è servito come sistema idrogeologico. Il problema è che la situazione continua a peggiorare e adesso basta una pioggia leggera a produrre nuovi danni. L’Appennino ora è quasi tutto così, basti guardare quanto successo la settimana scorsa a Modigliana a poca distanza da qui. Tornano a crollare le strade. Molti lavori, anche quelli di somma urgenza, devono essere rifatti in continuazione perché c’è una collina che si sta sfaldando. E questa era considerata una zona marginale già prima delle alluvioni, si figuri adesso. Ci si interessa soprattutto della pianura. A mio avviso non si vuole capire che se non si interviene in Appennino sarà dura trovare una soluzione per la pianura. Tutto quello che succede qui, in alto, si ripercuote a valle. In montagna, più che altrove, gli agricoltori sono custodi di un territorio. Una questione di presidio idrogeologico e gestione del territorio. In questo i Comuni sono troppo piccoli per intervenire. I privati hanno un ruolo determinante. Lei produce frutta biologica ed è conosciuto perché ha scelto di coltivare “frutti antichi”. Sì, sono quelle varietà molto diffuse nei secoli scorsi e che oggi sono state soppiantate dalla ricerca e dal miglioramento genetico. Ho puntato sulle antiche cultivar e l’ho fatto fino in fondo. Non mi sono limitato a un semplice campo di custodia a mo’ di museo ma le antiche varietà le ho rimesse in produzione coltivandole in maniera biologica. Un patrimonio di biodiversità che qui in Romagna era gigantesco ma che nel tempo era quasi del tutto scomparso perché sono varietà non adatte all’agri-industria, alla frigoconservazione, alla manipolazione. La mia è frutta che non arriva alla grande distribuzione ma è destinata a una vendita diretta, per intenderci. Un prodotto con un valore nutrizionale organolettico di qualità molto elevata. Parliamo della frutta che mangiavano i nostri nonni insomma. Qui ci sono varietà molto antiche di pera, pesca, ciliegia, castagne, fino ai piccoli frutti. Qual è la storia della sua azienda, da quanto fa questo lavoro? Ho iniziato nel 2015. Sono un agricoltore di prima generazione. Cosa faceva nella vita precedente? Dopo la laurea in Scienze Politiche ho attraversato tutta l’odissea del precariato. Ho fatto diversi lavori nei trasporti e nella logistica. Con la norma sull’assunzione degli interinali che raggiungevano i tre anni di impiego nell’azienda invece di assumerci ci hanno licenziato tutti. Proprio in quel periodo è nato mio figlio. In un primo tempo mi sono reimpiegato in una cooperativa. E poi? Ho sempre avuto la passione per l’agricoltura. Quando mi è capitata l’occasione di acquisire questo podere di fianco a casa mia, l’ho colta. Era un podere lasciato dal 1969, uno di quei tanti poderi abbandonati dell’Appennino da quando è iniziato lo spopolamento della montagna e la fine della civiltà contadina. Con tutto quello che avevo, i sacrifici, i risparmi messi da parte, ho riportato questo terreno alla sua vocazione agricola. Nel 2015, mi creda, a vederlo sembrava una giungla. Con parecchio entusiasmo e spirito di sacrificio sono riuscito a farne una piccola azienda con tre ettari di coltivazioni e dieci di bosco. A cui si aggiunge un castagneto che ho ripristinato. Una realtà che fino a un anno e mezzo fa, prima della prima alluvione, era un gioiellino di agroecologia e biodiversità. Un bel presidio. Nella vallata, a coltivare frutta, io sono l’ultimo rimasto. La sua casa si è salvata? Per pura casualità. Si trova a poche decine di metri dal podere, al di là della provinciale. Si è salvata dall’alluvione ma non dal terremoto che c’è stato il 18 settembre del 2023 tra Rocca San Casciano e Tredozio. Per noi, per fortuna, non si tratta di danni importanti. Diciamo che non ci siamo fatti mancare nulla dal punto di vista delle calamità. Non ne parla più nessuno di quel sisma ma la ricostruzione non è mai cominciata. C’è un comitato di cittadini che continua a battersi con le istituzioni. Sabato scorso, 7 dicembre, per l’ennesima volta siamo scesi in piazza per chiedere risposte. Abbiamo manifestato insieme, a Faenza, alluvionati e terremotati dell’Appennino. Lei, dopo la prima alluvione, ha creato il movimento ‘Appello per l’Appennino’. Sì, per dare voce alle esigenze e ai bisogni delle aree montane romagnole. Facciamo parte di una sorta di network, la Rete 360, che unisce diversi gruppi di cittadini. Ne sono nati tanti, soprattutto nel forlivese. Sono numerose le iniziative che abbiamo fatto e che continueremo a fare per cercare di tenere accesa una luce sulle difficoltà che qui si vivono ogni giorno. Il nostro impegno è necessario perché non vogliamo essere dimenticati. La questione dell’alluvione deve rimanere aperta e deve essere affrontata per le sue dimensioni reali. Quello che è successo qui nel 2023 è stato classificato come terza catastrofe naturale mondiale dell’anno. Tutto quello che è accaduto dopo, ossia nel settembre e nell’ottobre di quest’anno ha aggravato la situazione. La Romagna si è risvegliata, in un presente di crisi climatica, tra i territori più esposti e colpiti. Una consapevolezza, per tutti. Certo. Ed è di fronte a questa consapevolezza che dobbiamo chiedere risposte. Non si può trattare la questione come fosse normale amministrazione. Non basta pulire i tombini o potare gli alberi. Spesso questo tipo di interventi vengono spacciati come operazioni speciali mentre si tratta di ordinaria manutenzione. Qui però occorre ben al altro per mettere in sicurezza il territorio. Negli ultimi giorni è nato un Comitato Tecnico Scientifico, il CTS Agire. Ne fanno parte ingegneri idraulici, meteorologi, climatologi, geologi e idrologi che vogliono dare un contributo. Un’iniziativa per il territorio emiliano romagnolo che non ha precedenti nella gestione integrata del rischio idrogeologico. Contribuirà a fare informazione, contrastare le fake news e diffondere cultura scientifica sul cambiamento climatico. “Sì e noi contiamo che ci aiuti a riportare nelle giuste proporzioni quanto accaduto, cause ed effetti. Non deve essere oggetto di polemica politica. Parlare di crisi climatica non è né di destra né di sinistra. Il cambiamento è un dato di fatto supportato da dati scientifici. E qui c’è da ripensare un territorio, completamente, oltre che ripararlo. Fino ad ora è stato fatto poco o niente. Bisogna partire dall’Appennino, la ferita più grossa. Che rimane aperta e si fa sentire anche in pianura. Inutile chiedersi ogni volta come sia potuto succedere, non ci si può stupire. Se abbiamo una fascia montana lacerata che si riversa nei fiumi, nei fossi, in tutto il bacino idrografico, dove vuoi che vada? Va a valle, si veda cos’è accaduto a Boncellino, a Traversara, a Forlì”. Che futuro immagina? Fino a quando le cose rimarranno così il futuro sarà una grande incognita. Lo vedo molto incerto, precario. Un futuro legato all’angoscia con cui viviamo le previsioni meteo ogni volta che vengono annunciate precipitazioni. Sai già che la pioggia peggiorerà le cose e rischiamo di fare come Sisifo, il personaggio della mitologia greca condannato dagli dei a un’eterna punizione: far rotolare una roccia immensa in cima a una collina per poi vederla rotolare giù dall’altra parte e dover ricominciare daccapo. Qui non abbiamo la minima certezza che i nostri sforzi servano a qualcosa. Non c’è consolazione. Non puoi raccontarti che tenendo duro prima o poi tutto si risolverà. Le cose, lo abbiamo visto in questo anno e mezzo, peggiorano sempre. Ha perso il raccolto di un anno, è senza gli attrezzi, ha ugualmente dovuto pagare spese e contributi. Come resiste? L’unico aspetto positivo dell’alluvione è di avere incontrato tantissima gente speciale. Sono riuscito ad andare avanti grazie alle donazioni delle persone, un soccorso solidale. Aiuti che ho usato per pagare i contributi Inps e tutto il resto. La situazione è questa. Che Natale sarà? Tutto quello che di materiale abbiamo intorno nella vita è destinato a scomparire. Le relazioni invece, quelle che s’instaurano tra le persone anche in momenti di difficoltà come questo, e io ho avuto la fortuna di allacciarne parecchie, sono doni che rimangono per sempre. Perciò sono grato. E il Natale sicuramente lo festeggerò in questa ottica, non guardando a quello che ancora perderò o a come farò, ma alle tante persone che mi sono venute in aiuto e verso le quali devo essere riconoscente. Mi hanno regalato qualcosa di loro in maniera disinteressata, questo è quello che solitamente si definisce amore. Ho ricevuto quindi una fra le cose più importanti della vita. Da questo punto di vista per me il Natale è anche quest’anno qualcosa di bello, da celebrare. In fondo, il Natale è in questa ricchezza spirituale che nessuna alluvione potrà disperdere.

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