Periferie, l'educatore: "Dove c’è degrado bisogna seminare bellezza"

La comunità Kayros accoglie fino a 50 ragazzi, tra i 14 e i 25 anni, con procedimenti penali, con misure cautelari, messa alla prova o provvedimenti amministrativi e civili. Per i primi reati, o per quelli non gravi, alla fine del percorso i ragazzi possono estinguere il reato. Kayros è diventato un punto di riferimento a Milano ed è conosciuto in tutta Italia. È un modello di comunità che punta tutto sulla sfida e sull’autonomia. Le porte sono sempre aperte, la metropolitana dista 100 metri, non ci sono lucchetti e chiavi alle porte. I ragazzi sono liberi di scegliere se rimanere o andare via. Kayros promuove la libertà che si guadagna con la responsabilità. Ogni giorno il ragazzo deve rinnovare dentro di sé la responsabilità di una scelta: resto o torno per strada. Lo scopo è il reinserimento sociale autonomo e responsabile. Ovviamente è fondamentale l’intervento educativo che viene fatto dal primo all’ultimo giorno. L’anima e fondatore di Kayros è Don Claudio Burgio, cappellano del Beccaria ed ex direttore della cappella musicale del Duomo. Quest’anno Kayros compie 25 anni. Daniele Serriconi ha 45 anni. Da 12 anni lavora a Kayros prima come educatore, poi come coordinatore, e oggi come councelor e si occupa non solo di ragazzi, ma anche degli educatori stessi e dei professionisti che ruotano attorno alla comunità. Daniele è nato e cresciuto a Opera, quartiere della prima periferia di Milano, che accoglie il carcere di massima sicurezza della città. La sua adolescenza non è stata facile. Daniele è andato poco a scuola, è stato espulso, ha consumato tante diverse sostanze, ha commesso piccoli reati fino ai 18 anni quando, passata la rabbia adolescenziale, si è reso conto di avere bisogno di aiuto. “Avevo tante domande aperte e nessuna risposta. Quella che mi faceva più male era capire chi fossi. Sono stato depresso, e senza alcun riferimento e direzione fino ai 25 anni. Ho vissuto ai margini fino a quando ho conosciuto quella che, dopo poco sarebbe diventata la madre di mio figlio. Ma l’incontro che mi ha cambiato la vita è stato con il mio formatore di counceling, Loris Muner. Ho iniziato a frequentare la sua scuola e da subito ho amato questo mondo. Ero bravo e mi veniva naturale mettermi al servizio degli altri. Io volevo capire come aiutare i ragazzi che vivono le stesse difficoltà che avevo vissuto io. Ma soprattutto capire con quali mezzi portarli fuori da un circolo vizioso dove la realtà è fatta di tanta solitudine e di paura. A questi ragazzi vanno date prospettive e opportunità. È quello che io faccio tutti i giorni in Kayros. Davanti a un ragazzo, un minore straniero solo o un giovane che delinque da sempre, quale è la prima cosa che fate e come si sviluppa nei mesi il vostro rapporto? Bisogna tenere presente le storie dei ragazzi che arrivano in comunità. Ora, per esempio, ce ne sono sette che hanno commesso un tentato omicidio. Si tratta di un reato in escalation, figlio del reato di rapina impropria, quello che a Milano chiamano lo “scavallo”. Per rapinare, anche banalmente una catenina, i ragazzi usano coltelli, questo può portare all’uso di violenza. I ragazzi mi raccontano di uscire di casa con il coltello nel borsello, per paura di essere accoltellati a loro volta. Quindi anche una banale lite può sfociare in un delitto grave. Il tutto viene esasperato dalle sostanze stupefacenti, che i ragazzi assumono in grande quantità per farsi forza e per non avere paura. Il risultato è che a delinquere sono ragazzini, anche mingherlini, ma che hanno perso completamente la loro coscienza. Non hanno più limiti e freni. Possono rapinare un anziano indifeso o un coetaneo disarmato senza alcuna differenza. Il rivotril, con una bottiglia di super alcolico, fa perdere loro completamente il senso della realtà. Oggi le strade delle grandi città sono piene di ragazzi in queste condizioni, spesso senza famiglia e senza un tetto stabile. Lo hanno solo una volta che arrivano da noi. Si sentono a casa e al sicuro. Noi quando arrivano conosciamo bene che reato hanno commesso e in quali condizioni, non neghiamo la gravità ma non ci soffermiamo al reato. La prima cosa è cercare di conoscere la persona e la sua storia. È fondamentale per scardinarlo, capire il contesto in cui è maturato il reato. A quel punto puntiamo sull’assunzione di responsabilità della propria storia. Questo significa che ognuno di loro deve fare un passo indietro rispetto alla sofferenza che porta con sé e analizzare subito cosa lo ha portato qui. Ogni ragazzo che delinque è arrabbiato e, quando delinque, si giustifica in nome della rabbia che prova e in nome delle disuguaglianze. Questi ragazzi sono arrabbiati con la società e con chi ha ricevuto tutto quello che loro non hanno. In questo, rispetto agli anni della mia adolescenza, tutto viene amplificato dai social e dal mondo di apparenza e possesso. Di fatto noi confutiamo le ragioni con cui giustificano il loro operato. Una volta fatto questo iniziamo un percorso che mira al singolo individuo, alle sue capacità, al suo talento e alle sue aspirazioni. Se un ragazzo vuole diventare un trapper o un calciatore, noi lo mettiamo nelle condizioni di poterci almeno provare. Non gli ridiamo in faccia, ma lo prendiamo sul serio. Ultimamente è arrivato un ragazzo egiziano, era a Milano da solo senza la famiglia e senza conoscere la nostra lingua. Aveva vissuto per strada facendo reati e consumando sostanze. Dopo un periodo di detenzione al Beccaria è arrivato in Kayros e sembrava davvero non avesse alcuna intenzione di mettersi in gioco. Il primo passo è stato quello di fare in modo che si disintossicasse, che imparasse l’italiano e che si fidasse di noi. Per lui, come per gli altri, è più facile fidarsi del proprio branco e della strada. Oggi è assunto da Kayros in borsa lavoro, con un piccolo stipendio, come cuoco. Non scappa più e cerca sempre più raramente il suo vecchio branco. Questi sono i risultati a medio termine di un lavoro che si fonda sulla responsabilità e sulla fiducia e non sulle chiacchiere. Cosa è cambiato con il decreto Caivano? Come avevo previsto, ha portato all’esasperazione di quelle situazioni già drammatiche. Basta guardare i numeri nelle carceri minorili. Il Beccaria è al collasso. Andare in carcere oggi per un minore è estremamente semplice. Le condizioni di vita in carcere sono estremamente difficili e le conseguenze sono le rivolte sempre più frequenti. Il carcere minorile dovrebbe rieducare ancora di più di quanto non deve farlo il carcere per gli adulti. Ma ci devono essere le condizioni per seguire questi ragazzi. Innanzitutto, bisognerebbe fare in modo che i ragazzi imparino l’italiano, abbiano un educatore di riferimento. Ma se le cifre aumentano in modo così esponenziale, i ragazzi trascorrono le giornate in una cella alimentando solo la loro capacità di delinquere. Per gestire tra l’altro il sovraffollamento, i ragazzi vengono spostati da nord a sud in strutture molto distanti dalle loro famiglie e dai luoghi che conoscono. L’isolamento e la permanenza in un contesto di delinquenza fanno il resto. Il risultato del decreto Caivano ad oggi, a mio avviso, è: carceri sovraffollate, recupero sempre più difficile e comunità al collasso. Non mi sembra che sia stato da deterrente per le pene. Anzi. I ragazzi che vivono le periferie sembrano sempre più arrabbiati. Abbiamo assistito alle proteste dopo la morte di Ramy, nel quartiere Corvetto di Milano. Che lettura dà? Abbiamo perso l’opportunità di fare una analisi seria di quanto accaduto a favore di una narrazione che ha puntato tutto sulla campagna elettorale, da una parte o dall’altra. Qui parliamo di giovani allo sbando, come ce ne sono sempre stati. Parliamo di un mancato stop a un posto di blocco. Ma parliamo soprattutto di un ragazzo morto a 19 anni. Tutto questo genera rabbia così come è sempre accaduto. Le periferie più povere sono la cartina tornasole del fallimento della nostra società e di chi la governa. Ci sono sacche di rabbia, perché nelle periferie si sente tutta quella disuguaglianza di opportunità. La soluzione non può essere entrare in questi quartieri con l’esercito, o con le telecamere nascoste come allo zoo. La percezione che loro hanno è esattamente questa e non fa che aumentare la rabbia con le conseguenze che conosciamo. Nelle periferie bisogna entrare con il cuore e con i progetti concreti. Dove c’è il degrado bisogna seminare bellezza. Bisogna costruire parchi, palestre, piscine, campi da calcio, luoghi di aggregazione e di formazione, studi di registrazione per fare musica. Nelle periferie più degradate ci sono valori che in centro a Milano non ci sono. La narrazione non può essere solo quella del dramma, ma bisogna raccontare anche la bellezza di questi luoghi. In questi quartieri, nei palazzoni, le diverse etnie vivono in armonia. Come facciamo noi in Kayros, quando entriamo con rispetto nella vita dei ragazzi, dovrebbero fare la stessa cosa nelle periferie. La vecchia Milano della accoglienza e della ospitalità è lì”.