L'ansia del primato che deforma l'ambiente e cancella le donne

“Ivana Spagna e Rosolino Cellamare. Bravo e Brava!” Gli aggettivi si riferivano a due automobili prodotte dalla Fiat a cominciare dalla metà degli anni Novanta, il conduttore della trasmissione aveva maliziosamente rovesciato l’accoppiamento maschile-femminile, alludendo all’omosessualità dei due cantanti e suscitando l’ilarità del pubblico, compiacente e non più evoluto del conduttore stesso. Difficile che qualcuno possa ricordare quell’episodio perché non c’era scarto con l’impianto culturale del tempo, come un disegno nero su sfondo nero, e quando manca lo scarto è difficile porsi domande. Quell’atmosfera contagiava senza che nessuno si ponesse dubbi sulla manipolazione, volontaria o meno, che quotidianamente veniva trasferita a grandi e piccoli. Non è un caso se gli omosessuali sono ancora oggi costretti a “spiegare”. Il peso dell’ambiente è grande nella costruzione del nostro mondo interiore, le sue mutazioni vengono fedelmente registrate dai nostri sensori e trasformate, soprattutto negli ultimi anni, in apprendimenti sempre più conformistici. L’ambiente è lo scalpello più affilato della personalità, la lavora senza posa, prima grossolanamente e poi, con tocchi sempre più raffinati, la rifinisce fino a farla sembrare perfetta, definitiva ma in realtà è solo un semilavorato frutto del concorso di volontà ed eventi che il bambino, afflitto da una naturale e giustificata carenza di spirito critico, assorbe insieme alla confezione. All’inizio l’ambiente è la famiglia, azionista di maggioranza dell’educazione, soprattutto in quei primi anni trascorsi quasi tutti tra le mura di casa, un privilegio ma anche una grave responsabilità per gli adulti. Ciò che viene seminato allora tende a fissarsi con maggiore intensità rispetto a quanto accade dopo, sia perché il tempo di esposizione è enorme, poi a causa della precarietà dello spirito critico di cui si diceva prima, infine per l’impossibilità di inimicarsi i genitori, considerato che sono gli unici scogli cui attaccarsi. In quella fase l’educazione tende a somigliare ad un atipico atto di colonizzazione, i grandi portano la penna stilografica, addirittura la smartphone, e i piccoli grondano di stupore e gratitudine. Poi, le impressioni soggettive del bambino, oramai cresciuto, cominciano a guadagnare spazio, inizia un sistematico lavoro retroattivo di rivisitazione. Quando un genitore si lamenta dell’improvviso cambiamento del figlio, dimentica che la fase di colonizzazione sta per terminare, ora gli indigeni sono andati a scuola e cominciano a chiedere conto, invocano bidirezionalità. L’ombrello dell’ambiente si è allargato a dismisura, l’esterno si affianca sempre più sfacciatamente alla famiglia, nei casi estremi fino a soppiantarla perché è più seduttivo e, almeno apparentemente, non chiede nulla in cambio, addirittura, come il gatto e la volpe, offre soluzioni rapide ed elementari. Questo passaggio, con la virtualizzazione della realtà, è diventano critico e rischia di trasformarsi in un danno collettivo potente, perché l’ambiente virtuale tende a ragionare come i bambini piccoli trasformando le esperienze, materiali e immateriali, in una striscia di giudizi bipolari, proprio come facciamo nelle fasi primitive della vita, infiltrando l’apparato culturale generale, compresa la vita quotidiana degli adulti, privata delle sfumature, dunque della possibilità di capirsi. Si prende posizione, in continuazione, come in un videogame, e in modo netto, senza che vi siano possibilità di trovare punti comuni. Le stesse guerre sono figlie di questa deriva, anche la necessità di essere visti, registrati, colti si fa più pressante. “In gita volevo fare finta di inciampare, simulando una spinta accidentale al mio compagno, che sarebbe finito in mare. Quindi mi sarei tuffato per salvarlo, perché nuoto bene, guadagnando il plauso degli insegnanti e della classe”. La domanda di oggi è cosa siamo disposti a fare per essere notati, quale livello di etero-lesività pensiamo di poterci concedere, a quali quote sentiamo di potere abbassare l’altro nella speranza che, per illusione ottica, questo ci faccia sembrare più “alti”. La scorsa settimana stavo tornando a casa, dal finestrino del pullman che mi portava all’aeroporto leggevo enormi scritte sui muri. Una è finita sulla mia agenda. “Diffidati Librino”. Mi servirà per spiegare meglio il concetto, per rinforzare la domanda, ossia cosa siamo disposti a spendere per uscire dal cono d’ombra che sentiamo incombere sulla nostra vita, per lasciarci alle spalle il terrore di non contare niente, costi quel che costi. Persino un’azione antisociale, con tanto di etichetta negativa, può rendere orgogliosi se accenda la luce su di noi incrementando la speranza di consegnarsi all’immortalità. In questo brodo, sempre più intorbidito dall’ansia di lasciare tracce a qualunque costo, anche il tema della violenza sulle donne rischia di non essere colto nella sua vera essenza bestiale, nella sua spaventosa lesività, e rendersi ingovernabile perché i protagonisti della narrazione finiscono per diventare proprio i carnefici, con le loro patologie, le loro pretese irricevibili, il loro fascino oscuro. Piccoli mostri, così tanto concentrati su di sé da considerare lecito sopprimere qualsiasi ostacolo, che sia un tronco d’albero e una donna, talvolta con ciò che porta in grembo, dalla loro strada, che sognano sempre sgombra, come se fossero gli unici abitanti del pianeta. Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, rappresenta una voce autorevole nel panorama della psicologia italiana. È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra questi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, fino ai recentissimi “Volere Bene. La mente e il cuore” e “Individualisti si cresce" . Nella sua produzione sono presenti il romanzo di formazione “La casa di Henriette” e la collana illustrata di psicologia “Crescere senza effetti collaterali” , quest’ultima tradotta in diversi paesi, ultimo dei quali la Cina. È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/