Abbiategrasso, corso di arabo a scuola: la risposta del preside alle polemiche sul velo

Cronaca
Giulia Mengolini

Giulia Mengolini

©IPA/Fotogramma

Giovanni Ferrario, dirigente scolastico dell'istituto Bachelet, chiarisce che quello che ha destato scalpore negli ultimi giorni è un corso extracurriculare come tanti, con l'obiettivo di favorire l'inclusione, e non certo la sottomissione delle donne: "Non esiste un laboratorio che insegna alle ragazze come indossare lo hijab”, spiega. "La vicinanza con il caso di Pioltello ha ingigantito tutto"

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“Nella nostra scuola non è prevista alcuna prassi interna relativa al velo islamico. Né tantomeno esiste un laboratorio che insegna alle ragazze come indossare lo hijab”. A precisarlo a Sky Tg24, in giorni movimentati per l’istituto Bachelet di Abbiategrasso, nel milanese, è il dirigente scolastico Giovanni Ferrario, che risponde alle polemiche sollevate da un articolo de Il Giornale dal titolo “Integrazione al contrario: a lezione di arabo in classe”. Nel pezzo, ripreso da diverse testate, si parlava appunto di un laboratorio di hijab per insegnare alle ragazze come portare il velo. Sul caso era intervenuta anche la responsabile dipartimento Immigrazione di Fratelli d'Italia, Sara Kelany, che in una nota ha criticato l’iniziativa: “Non mi spiego come si possa accettare che in una scuola si possa insegnare alle donne a coprire il capo. Così il principio di laicità della scuola viene calpestato in nome di un'inclusione che si basa sulla diffusione dei principi dell'Islam, che troppo spesso vogliono la donna velata, recintata e costretta alla sudditanza”. In realtà, spiega il dirigente scolastico del liceo Bachelet, non esiste alcun laboratorio per imparare a indossare il velo: “Si tratta di un corso di lingua araba che si tiene dall’anno scolastico 2021-2022, e che intendiamo riproporre. È semplicemente uno dei 66 progetti extracurriculari varati dal collegio docenti all’inizio dell’anno”.

Un corso per favorire l'inclusione

Quello di arabo, sottolinea Ferrario, è quindi "un corso come un altro", e ha peraltro una durata molto breve: consiste in due lezioni extracurricolari pomeridiane, un’uscita didattica e un momento conviviale. E l’equivoco relativo allo hijab, spiega, è nato perché “per pura curiosità, sono state alcune studentesse italiane partecipanti al corso a chiedere alle colleghe di religione musulmana come si indossa questo capo di abbigliamento. Anche un ragazzo ha voluto provarlo. I ragazzi e le ragazze a quest'età sono curiosi per fortuna. E da parte nostra, ovviamente, questo non ha suscitato alcuna reazione negativa”. L’intento, continua, è favorire l’inclusione – parola che il preside preferisce a “integrazione”: “Lo vedo come un progetto che accresce la conoscenza, e la conoscenza non può portare che benefici, perché sviluppa le relazioni tra le persone”.  

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Insomma, nessun invito a indossare il velo per le studentesse, e soprattutto "nessuna sottomissione delle donne". Il dirigente spiega che nel suo istituto c'è circa un 10% di studenti che non è di nazionalità italiana, e il 5-6% è di religione musulmana. "Io stesso ho appeso nel mio ufficio il mio nome scritto in arabo, che male c'è?", si chiede. E chiude con una riflessione: "Se la fine del Ramadan fosse stata il 10 dicembre anziché il 10 aprile credo che questo vespaio di polemiche non sarebbe nato. La vicinanza temporale con la vicenda della scuola di Pioltello ha creato un caso inesistente".

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