L'ossessione del controllo spezzerà noi e i nostri figli

Cronaca
Domenico Barrilà

Domenico Barrilà

Studenti al loro rientro in classe dopo lo stop per le feste natalizie. Genova, 07 Gennaio 2021.
ANSA/LUCA ZENNARO

Il controllo come sussidio a molti dei problemi che ci affliggono introduce stanchezza supplementare, altre situazioni da governare, nuovi imprevisti da fronteggiare. Meglio puntare sulla fiducia: più rilassante per chi controlla e per chi è controllato

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I genitori di un ragazzino che frequenta le medie, mi mostrano le comunicazioni che ricevono regolarmente dalla scuola, sullo smartphone, quasi in tempo reale. Ritardi, anche piccoli, assenze, insufficienze, note di comportamento. Nulla sfugge.

 

Tuttavia, il controllo come sussidio a molti dei problemi che ci affliggono, introduce stanchezza supplementare, altre situazioni da governare, nuovi imprevisti da fronteggiare, incrementando i troppi che già assediano gli individui e i sistemi familiari, costringendoli a continui sforzi di riadattamento.

 

A ogni evento, infatti, corrisponde una certa quantità di energia che investiamo per ripristinare uno stato di equilibrio, ma più crescono gli eventi più la nostra capacità di resistenza viene minacciata. Gli sforzi che tale pressione richiede non sono gratuiti, assorbono quantità enormi di risorse fisiche e nervose, prosciugando le poche che ci lascia a disposizione il ritmo delle nostre giornate. L’unica certezza è l’aumento dell’ansia, poiché la necessità di tenere tutto all’interno del perimetro dei nostri sensi non fa altro che accrescere la percezione di minaccia che avvertiamo.

Molte vite vissute simultaneamente

Le persone controllanti sono sempre più stanche. Come se vivessero molte vite simultaneamente, e alla fine i presunti benefici del controllo si trasformano in veri e propri auto-sabotaggi capaci di annegarci in un perenne gioco a guardie e ladri, ammalandoci, soprattutto quando ci sono di mezzo i nostri figli e ci sembra che la loro “salvezza” possa dipendere unicamente dalla nostra capacità di controllo.

 

Ma neppure la semplice vigilanza, che è cosa diversa dal controllo ed è molto preziosa nei rapporti educativi, può diventare l’unico ponte che ci unisce ai figli. Se lo diventa sarà impossibile la costruzione di rapporti di fiducia, scialuppe di salvataggio ineliminabili, considerato che non possiamo controllare e vigilare tutto e tutti, ventiquattrore su ventiquattro.

 

Meglio, molto meglio, puntare sulla fiducia, è più rilassante per chi controlla e per chi è controllato, per quest’ultimo diventa addirittura giudizio positivo perché certifica che l’educatore si fida dell’educando e gli attribuisce valore. Questa attestazione, per i bambini e per i ragazzi, in genere oppressi da cospicui sentimenti di inadeguatezza e di dubbi su sé stessi, è fondamentale, anzi decisiva per approdare ad una visione più ottimistica di sé.

 

Per questa e per altre ragioni, che vedremo brevemente, non c’è nulla di più logorante del controllo, sia per chi lo effettua che, timoroso di saltare qualche passaggio, comincia a controllare anche sé stesso, sia per chi lo subisce, che si sente mortificato da chi lo tiene costantemente d’occhio.

Uno "stretto regime di sorveglianza"

Una situazione assai simile a quella che sperimenta una madre quando il suo bambino è appena nato e lei non può abbassare mai la guardia, di giorno e di notte. In questo caso, dal controllo dipende addirittura la vita stessa del neonato il quale, creatura fragilissima, trova proprio in quella costante azione di monitoraggio motivi di rassicurazione e quando non la avverte la cerca, identificandola con la presenza fisica della madre. Un incastro di interessi che in questo caso non disturba nessuno. Anzi. Invece, uno stretto regime di sorveglianza, applicato ai rapporti tra i genitori e figli già grandicelli, si presta a interpretazioni diverse nella prole e può dare corpo a controindicazioni importanti, oltre alla percezione di sfiducia di cui si diceva.

 

Nessuno, ad esempio, considera il valore evolutivo della trasgressione, dello sforzo creativo che implica cavarsela in situazioni lontane dall’occhio dei genitori o della scuola, ovviamente non si parla di fatti che implicano situazioni di pericolo. Osservare e spiare appartengono a versanti opposti di visioni pedagogiche.

 

Oggi è quasi impossibile marinare la scuola, senza che la famiglia ne abbia notizia immediata. C’è stato un tempo in cui capitava di bigiare perché impreparati per l’interrogazione, perché non si era della disposizione giusta o semplicemente perché non se ne aveva voglia, come succede a diversi adulti con il lavoro, ma in questi casi nessuno si scandalizza.

Il controllo che crea risentimento

Nei ricordi degli ultraquarantenni, marinare la scuola risulta un evento comune, così come erano comuni gli espedienti creativi per fare in modo che la cosa passasse inosservata o fosse ammortizzata senza danni. Si trattava di uno spazio di libertà che non produceva quasi mai conseguenze negative, semmai erano collaudi di vita di cui ci si assumeva, oltre che i rischi, la responsabilità. Io stesso ricordo alcune bigiate, in quinta elementare e alle medie, conservo ancora il sapore della trasgressione e la ricerca delle contromisure, compresa la falsificazione della firma o la bugia della nonna in ospedale. Non è questo ciò che può rovinare un figlio. Rammento, tuttavia, anche il senso di colpa e il desiderio di porre rimedio, ingredienti “valoriali” che spingevamo me e i complici occasionali a trovare aggiustamenti compatibili con l’ambiente circostante.

 

Penso alla pressione derivata dall’angoscia di essere scoperti. Oggi non potremmo più farlo, la trasgressione, ospite importante dei processi di crescita, viene prevenuta, contrastata con tutti i mezzi, limitando la libertà di compiere scelte fuori dalle righe e di reperire i necessari rimedi.

 

Una mia giovane paziente è responsabile di un negozio di abbigliamento presso un centro commerciale, mi parla, con una forte dose di rabbia, del dispositivo contapersone. Ogni individuo che varca l’ingresso viene censito e alla fine della giornata i titolari valutano il rapporto tra gli individui entrati e i capi venduti. “Mi sento come in un acquario, non provo solidarietà verso i proprietari, così non cresco e non cresce l’azienda, spendo le energie nel contrasto degli imprevisti, come quelli generati della vivacità dei bambini che accompagnano i genitori, entrano, escono e poi rientrano, facendo scattare a ripetizione il contapersone, falsando i dati degli ingressi”.

 

Il controllo crea risentimento e abbatte la potenzialità creativa in tutti gli ambiti, figuriamoci in quello educativo. Eliminarlo totalmente è impossibile. Eleggerlo a modello di governo delle interazioni educative, affettive, sociali, ci ammalerà.

 

 

Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, è considerato uno dei massimi psicoterapeuti italiani.
È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra gli ultimi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, nonché il romanzo di formazione “La casa di Henriette” (Ed. Sonda).
Nella sua produzione non mancano i lavori per bambini piccoli, come la collana “Crescere senza effetti collaterali” (Ed. Carthusia).

È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/

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