Morte Giovanna Pedretti, gli hater e l’ansia di strappare attenzione

Cronaca
Domenico Barrilà

Domenico Barrilà

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Il potere distruttivo dei social cammina fondamentalmente su due gambe. La prima vede i soggetti che si cimentano in qualsiasi dibattito utilizzare schemi di percezione bipolare, privi di sfumature, tipici dell’infanzia. La seconda gamba è ancora più poderosa e micidiale della prima, perché procede secondo una logica apparentemente incomprensibile, dove non si cerca di vincere, ma di fare perdere l’altro

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Comprendere la tragica vicenda della ristoratrice Giovanna Pedretti, culminata col presunto suicidio, richiede di attraversare gli acquitrini opachi dei social network, oramai parte integrante di una realtà ibrida, sospesa tra virtuale e tridimensionale, territori dalla geografia incerta, poco illuminati e privi di mappe, dove le persone comuni saranno ancora a lungo artiglieri e carne da cannone, allo stesso tempo. Un gioco delle parti dove, però, gli stimoli provengono quasi sempre dai vari padroni della virtualità, coloro che detengono l’agenda e sperimentano la soddisfazione immediata che può regalare il governo delle opinioni altrui, salvo quando essi stessi ne rimangono travolti, proprio perché il controllo di milioni di emozioni che si scatenano simultaneamente è semplicemente impossibile.

Le due gambe dei social

Il potere distruttivo dei social cammina fondamentalmente su due gambe. La prima vede i soggetti che si cimentano in qualsiasi dibattito utilizzare schemi di percezione bipolare, privi di sfumature, tipici dell’infanzia. Ogni cosa è sistemata in due cassetti, da una parte il buono dall’altra il cattivo, da una parte il bianco dall’altra il nero, da una parte l’amico dall’altra il nemico, e via di questo passo.

La seconda gamba è ancora più poderosa e micidiale della prima, perché procede secondo una logica apparentemente incomprensibile, dove non si cerca di vincere, ma di fare perdere l’altro. Piuttosto che perdere faccio perdere l’altro. Un atteggiamento che procura godimento ma non crea valore, né individuale né sociale, ma soprattutto è costretto a utilizzare pratiche demolitive, mai costruttive.

Solo quando l’altro è annientato arriva la catarsi. Il combinato disposto del movimento delle due gambe produce l’effetto di una bomba sociale, soprattutto sui più fragili. Il presupposto, illusorio, è che la nostra cattiveria, in assenza di altri talenti, ci farà ricordare. Meglio che niente. In un mondo normale vince il talento, in un magma caotico vincono i “gesti” vistosi. In un mondo normale vincono i sussurri, nelle pieghe di una mattanza senza regole, trionfano le urla.

Se provassimo a guardare attraverso questa finestra interpretativa, ciò che accade intorno a noi ci apparirebbero molto più chiaro e leggibile. Vediamo un assaggio.

Nelle stesse ore in cui Giovanna si congedava dalla vita, a oltre mille chilometri di distanza l’aereo sul quale viaggiavo, dopo avere sfiorato la pista di atterraggio, si è dovuto levare in volo con un’imprevista manovra d’emergenza.

Vi erano circa 200 persone a bordo. Nessuna di loro si è lasciata andare a manifestazioni di panico né a urla isteriche, tantomeno a espressioni scomposte. Solo paziente attesa delle parole del pilota, arrivate rapidamente. Il vento, già quell’aeroporto ne è ricco, aveva cambiato improvvisamente direzione e questo ci rendeva troppo veloci per azzardare un atterraggio.

Come un atterraggio difficile

Dopo meno di dieci minuti, cambiato senso di approccio alla pista, ci siamo appoggiati al suolo in sicurezza. Questa è la realtà e ciò che state leggendo il suo racconto, discretamente fedele. Non sono un utente dei social network, ma si può

facilmente immaginare che se lo fossi stato e avessi postato una narrazione così basica, poco emozionante, nessuno mi avrebbe considerato.

Ora proviamo a immaginare come sarebbe andata se un viaggiatore avesse postato sul proprio profilo, in una qualsiasi piattaforma, il video del laborioso atterraggio, girato sia all’interno della cabina che attraverso il finestrino, magari commentando che si erano vissuti momenti di terrore, come attestava proprio il silenzio delle persone, dovuto -secondo lui- alla terribile tensione presente.

Il racconto degli eventi, grazie ai sofisticati mezzi visivi, oramai a disposizione di tutti i cittadini, alla suggestione delle parole e alla velocità con cui possiamo diffondere contenuti, sembra sempre più vicina a sostituire la stessa realtà. Poco male, si direbbe, aggiungendo che oramai siamo abituati. Eppure, le cose non stanno esattamente così, e se il “racconto” sostituisce gli avvenimenti fattuali, il rischio di sfasamenti, personali e collettivi diventa concreto.

Ciò che è successo alla povera Giovanna Pedretti è figlio di questa incessante ansia di narrare, spesso d’impeto, fatti veri o inventati che siano, l’importante è strappare un brandello di attenzione. A tutti i costi.

Il bisogno di farsi percepire

Si tratta di un bisogno naturale, quello di farsi percepire dal mondo, a cui dobbiamo quasi tutti i progressi realizzati dall’umanità nei millenni. Il desiderio di lasciare un’impronta, la necessità vitale di farsi ricordare, spinge da sempre uomini e donne a compiere imprese di ogni genere, pro-sociali e persino antisociali. Realizzare il sogno di restare nella memoria dei propri simili è la vera missione di ogni essere umano. Oggi, però, questa partita vitale e decisiva si gioca ai confini del mondo tridimensionale, i giocatori si muovono in ambiti che credono di conoscere ma di fatto percorrono labirinti dove le emozioni sono stimolate senza soluzione di continuità, generando stress esistenziali potenti capaci di annientarci.

Tuttavia, non possiamo cercare alibi, non è la rete in sé a fabbricare mostri, semmai essa funziona da amplificatore di lineamenti già presenti, rendendoli abnormi. Se una persona è avventata, imprudente, violenta e aggressiva nella vita tridimensionale, possiamo stare certi che la dimensione virtuale esalterà questi tratti, spesso trascinando anche coloro che nella vita di tutti i giorni presentano caratteristiche pro-sociali. La rete, infatti, non è un fiume, disciplinato dalla presenza di due “sponde”, sul terreno dei social, privo di ostacoli e di regole, l’acqua non incontra nessuna sponda moderatrice e si allarga travolgendo tutto ciò che incontra. Potremmo paragonare i dibattiti sulla reta a un’inondazione.

Chi sono gli odiatori

Coloro che vengono definiti odiatori, rappresentano individui “amplificati” dal contesto immateriale, le cui caratteristiche negative, in genere “moderate” dalla presenza di interlocutori in carne ed ossa, che funzionano come le sponde dei fiumi appena richiamate, si esaltano quando agiscono nel vuoto di riferimenti tangibili.

L’irruzione della realtà immateriale, la disponibilità di mezzi di “trasporto” capaci di veicolare il proprio pensiero all’istante, raccontando di noi al mondo, è diventata la grande tentazione degli esseri umani, che sovente nel puro e semplice

racconto trovano motivi di effimere gratificazioni. Tuttavia, esiste un problema che inquina il gioco. Dal momento che il farsi presenti sui social possiede già valore di “impresa”, si rinuncia alle imprese vere e i contributi positivi al mondo crollano vertiginosamente. Si moltiplicano le rappresentazioni di sé, esercizio emozionante dai ritorni immediati e si annega nella pigrizia il sentimento sociale.

La pulsione a esserci può fare a meno della realtà dei fatti, che possono diventare non necessari, e quando ci sono, come nel caso dell’imprevisto toccato ai passeggeri del mio volo, si possono abbellire a piacere, rendere appetibili, acconciare in un modo che ne faccia materia di interesse, attirando visualizzazioni, like, commenti, dibattiti. Popolarità, lucrata il più delle volte stimolando le parti più sensibili della natura umana, compassione inclusa.

Giovanna Pedretti, quale che sia la veridicità del suo racconto, è caduta su questo fronte, dove non esistono medici e infermieri che possono soccorrerti, non sono previsti. Chi entra nell’acquitrino lo fa a proprio rischio, e quando è gravato da fragilità pregresse può annegare, perché i censori tratteranno alla stessa maniera l’influencer che si arricchisce barando e il poveretto che cerca solo una carezza e, nel cercarla, assembla pezzi da montaggio non sempre certificati. Per una carezza si può, si deve, perdonare. Per l’ingordigia sarebbe meglio di no. Ma sui social non c’è differenza.

Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, è considerato uno dei massimi psicoterapeuti italiani.
È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra gli ultimi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, nonché il romanzo di formazione “La casa di Henriette” (Ed. Sonda).
Nella sua produzione non mancano i lavori per bambini piccoli, come la collana “Crescere senza effetti collaterali” (Ed. Carthusia).

È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/

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