Disabilità, Giulia Lamarca: "Quando vedremo sfilare una modella in carrozzina in Italia?"

Cronaca
Giulia Mengolini

Giulia Mengolini

La rappresentazione è cruciale per non sentirsi invisibili. Ma nel mondo della moda le donne con disabilità, specialmente in carrozzina, sembrano non esistere. Abbiamo incontrato la travel blogger che sui social racconta la sua vita dopo l'incidente avuto 12 anni fa, per abbattere muri e sfatare qualche falso mito. Anche sul sesso

ascolta articolo

Abbattere dei muri. Non tanto parlando, ma mostrando che si può fare.
Giulia Lamarca lo fa ogni giorno su Instagram e Tik Tok. Dodici anni fa, a 19 anni, ha avuto un incidente che le ha cambiato la vita: ha perso l’uso delle gambe e iniziato una seconda vita seduta su una carrozzina. Non uno strumento di costrizione, ma una possibilità di tornare a muoversi, anche se in un modo nuovo e difficile da accettare. Giulia Lamarca è tante cose: una donna, una travel blogger, una psicologa, un’attivista, una madre e una moglie. Non è la sua carrozzina. Ma ci è voluto un lavoro di anni per fare pace con questa nuova sé. Un lavoro che continua anche oggi, giorno dopo giorno. Grazie al quale oggi aiuta migliaia di ragazze che si rivedono in lei. Perché la identificarsi negli altri è fondamentale, ma in Italia, sostiene Lamarca, c’è ancora un enorme lavoro da fare. Il problema della scarsissima rappresentazione delle persone con disabilità è universale: in America, ad esempio, più di un quarto della popolazione ha una disabilità - il 26% dei cittadini - ma appaiono soltanto nell’1% delle pubblicità.

 

A settembre hai parlato sulle tue pagine della mancanza di modelle in carrozzina alla Fashion Week di Milano. A che punto siamo?

Noi persone con disabilità siamo la più grande minoranza al mondo e non siamo rappresentate nel mondo della moda. È come se essere disabili non fosse in voga. Oggi fortunatamente l’inclusione ha fatto passi da gigante, da quella nei confronti delle diverse etnie al mondo LGBTQ+. Invece noi non veniamo rappresentati. E pensare che siamo tantissimi, e per ogni persona con disabilità ci sono tendenzialmente fino a quattro persone che si muovono con lei: questa mancata inclusione riguarda anche le nostre famiglie.

 

Trovi che questo gap di inclusione sia particolarmente ampio se si parla di donne in carrozzina?

Sì, secondo me sulla carrozzina c’è un forte problema ancora di immagine. Per esempio negli anni ci siamo abituati a vedere modelle o attrici con le protesi. Invece modelle in carrozzina mai: le ho viste solo due volte alla Fashion week di New York. Credo che dietro ci sia un pregiudizio radicato, legato al corpo della donna che nell’immaginario comune è in piedi e mostra le gambe. Ed è un ostacolo. Penso che la mia crescita sui social sia proprio dovuta a questo vuoto: le persone sentono il bisogno di identificarsi.
 

Se dovessi dirmi il nome di una modella in carrozzina per ispirare le più giovani chi ti verrebbe in mente?
Purtroppo nessuna!

 

Da donna, come è cambiato il rapporto con il tuo corpo dopo l’incidente?
Ci ho lavorato molto, e continuo a farlo. Avevo 19 anni quando ho smesso di camminare, e ovviamente il mio immaginario di una ragazza di quell’età era diverso da quella che mi sono ritrovata ad essere. Ci sono sempre delle prime volte: ho fatto i conti con me nei panni di moglie in carrozzina, e poi quelli di madre. Anche in questo caso, mi sono resa conto che siamo abituati a vedere sempre donne con il pancione in piedi. Lavoro molto per combattere l’immaginario canonico che io stessa avevo di donna. Non mi sentivo più bella, e pensavo che gli altri avessero ragione quando mi guardavano in modo strano. Ma lo sguardo più severo era il mio.

 

Cosa ti ha aiutato in questo percorso per riconoscerti di nuovo?

Quello che per me fa la differenza, e che provo a fare sui social sperando sia così anche per le persone che mi seguono, è destrutturare le immagini. Semplicemente, prendi un’immagine che hai nella testa e la smonti. Un esempio: chi ha detto che le donne in carrozzina non possono mettere i tacchi? Mettiamoli.

Funziona?
Sì! Ma ripeto, è il risultato di un lavoro costante che faccio su di me, non c’è stato nulla di immediato. Oggi le persone mi vedono sicura, ma non è sempre stato così. Ho avuto una forte crisi dopo l’incidente e tuttora convivo con molte insicurezze. Ma mi sono resa conto che le persone vedono quello che noi vogliamo fargli vedere. Puoi apparire come vuoi, sei tu che scegli e gli altri vedono quello che tu vuoi mostrare.

 

Parliamo dei miti da sfatare sulle persone in carrozzina?
Certo. Uno su tutti è quello della mancata indipendenza. Io viaggio (oggi lo faccio con mio marito e mia figlia ma sarei in grado di farlo anche da sola), mi muovo da sola, guido l’auto. Resiste ancora l’idea che una persona con disabilità non sia autonoma, che abbia bisogno di un’assistenza 24 ore su 24. Non è assolutamente vero.

 

Sesso e disabilità: è ancora un tabù?
Eccome. Anche su questo tema c’è un forte mito da sfatare. Mi rendo conto di essere fortunata con mio marito perché facendo il fisioterapista era abituato a toccare un corpo con disabilità. Ma le persone spesso ne hanno paura.

 

Ti è mai successo di avvertire questa paura dell'altro?
Sì, in qualche occasione dopo mesi di remore mi è capitato di dover dire ai ragazzi “sì, io posso fare sesso”. Magari passavano mesi e loro non osavano nemmeno fare la domanda. Pensa che ricevo tantissimi messaggi di persone che mi chiedono consigli su questi temi. “Sai che mi piace una ragazza in carrozzina ma non so come approcciarla?”.

Tu cosa rispondi?
Il mio consiglio è di buttarsi: "Probabilmente lei sarà ancora più insicura di te, quindi aiutala", dico ai ragazzi. Anche in questa sfera ci portiamo dietro l’insicurezza di non piacere all’altro, di non essere all’altezza di una donna in piedi. Un’ansia che ogni donna in carrozzina con cui ho parlato mi ha raccontato. E il sesso delle persone con disabilità è ancora un tabù e non solo con i nuovi partner, ma anche tra coppie sposate da anni che faticano a comunicare su questo tema.

Giulia Lamarca.

Parliamo del linguaggio. Con che termini si dovrebbe parlare di disabilità?
Trovo ci sia ancora tanta ignoranza nel dare i nomi corretti alle cose. Io sono dell’idea che si dovrebbe parlare di “persona con disabilità” e non di “persona disabile” né di “disabile”. Un modo per non identificare un uomo o una donna con la propria disabilità. Perché siamo quello, ma anche molto altro.

 

Ci sono termini che invece trovi offensivi e che ti capita di sentir dire?
Non sopporto quando leggo di qualcuno “costretto sulla carrozzina”. C’è un dibattito attuale tra persone con disabilità che verte su questa espressione che spesso si legge sui giornali. Non vogliamo che la carrozzina sia raccontata come un mezzo triste, ma come uno strumento per poter fare le cose.
 

Trovi che le persone siano attrezzate per parlare in modo corretto di disabilità?
Ho scoperto che dipende molto dall’età. Nelle vecchie generazioni c’è ancora radicata questa idea di assistenzialismo, capita spesso che ti dicano “poverina”. O le persone più anziane spesso mi augurano di guarire. “Spero che guarirai perché questa non è vita”, mi dicono a volte. Se invece incontro adolescenti che mi seguono su TikTok l’approccio è completamente diverso. Mi salutano come se fossi una loro amica e magari mi dicono: “Che bello ho visto che hai giocato a tennis, lo faccio anch’io”. Oppure: "Hai messo la gonna, lo faccio anch'io". Questo mi fa pensare che quello che faccio sta funzionando.
 

Quando hai capito che la carrozzina era uno strumento di libertà e non di costrizione?
Molto tardi. E sai, penso di aver fatto molti salti mentali in avanti da quando sono diventata mamma. Una bambina è come un foglio bianco tutto da scrivere. E avere Sophie mi ha fatto rendere conto che lei ha sempre conosciuto questa visione di me, e aiutato a riconoscere molti preconcetti solo miei. Se per esempio io sono a letto e vuole che vada sul divano con lei, mi sposta la carrozzina e me la avvicina. Ha solo due anni, ma sa che se mamma vuole muoversi ha bisogno di quella, per lei è estremamente naturale. Mi ha aiutato a capire che quella è una parte di me che per lei significa movimento, e a riflettere sul fatto che senza quella sarei immobile.  

approfondimento

Camper e disabilità, Assocamp lancia raccolta firme per Iva al 4%

Giulia Lamarca con sua figlia Sophie.

E poi è arrivata la condivisione sui social.

I social sono stati cruciali per me, mi hanno aiutata moltissimo. Cercavo donne in carrozzina in cui potessi rivedermi, qualcuna che potesse insegnarmi qualcosa. Ho trovato diverse ragazze americane, ma mi sono resa conto che in Italia nessuno ne parlava, non conoscevo nessuna come me. Anche in ospedale, quando ero ricoverata, non ho mai avuto un confronto con una ragazza della mia età, erano tutti o uomini oppure donne molto più grandi di me.
 

Tu viaggi tantissimo. A che punto siamo a livello di accessibilità per persone con disabilità?

Dico che si può fare di più. L’Italia per essere un Paese europeo è molto indietro rispetto ad altri come la Svizzera o la Norvegia, per citarne un paio. Le basi sono buone ma non bastano. Molti servizi accessibili, ad esempio nei musei, esistono ma non sono segnalati, e questo per noi è un problema, perché se non lo sappiamo è come se non ci fossero. Per non parlare dei mezzi pubblici, soprattutto le metropolitane. Non basta, bisogna fare di più.

approfondimento

“La casa di Ale”, abitazione tech e accessibile per superare barriere

Giulia Lamarca

Cronaca: i più letti