Cos’è la giustizia riparativa istituita dalla riforma Cartabia

Cronaca
Yara Al Zaitr

Yara Al Zaitr

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Qual è il significato di giustizia riparativa e in quali casi viene utilizzata dopo la riforma Cartabia? A chiarirlo Grazia Mannozzi, direttrice del Centro Studi sulla Giustizia Riparativa e la Mediazione

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Nelle ultime settimane si è parlato molto di giustizia riparativa, a partire anche dal caso di cronaca Davide Fontana, l’uomo condannato a 30 anni di carcere per aver ucciso la 26enne Carol Maltesi. Ma cosa significa esattamente giustizia riparativa? Lo abbiamo chiesto a Grazia Mannozzi, direttrice del Centro Studi sulla Giustizia Riparativa e la Mediazione.

Riparare a un crimine, cos’è la giustizia riparativa

Il vocabolario Treccani definisce la vittima come una persona che “perde la vita o subisce un serio danno a causa di un grave evento”. Una persona che, quindi, nel danno vede definita la sua identità, che subisce involontariamente un’aggressione e che non ha potere di deciderne le conseguenze. E anche se il tribunale – attraverso la pena – ripaga almeno moralmente la vittima di un reato, di fatto la sentenza non ripara in nessun modo al suo dolore. Per questo motivo dove non arriva il sistema penale, prova ad arrivare la giustizia riparativa.

La normativa italiana

Nel nostro ordinamento giuridico la normativa in materia di giustizia riparativa ha preso vigore con la cosiddetta Riforma Cartabia e in particolare con gli articoli dal 42 al 67 del d.lgs. 150/2022. In particolare, l’art. 42 definisce la giustizia riparativa come: “ogni programma che consente alla vittima del reato, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore”.

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Mettere al centro la vittima

Per capire cos’è esattamente la giustizia riparativa, lo chiediamo a Grazia Mannozzi, direttrice del Centro Studi sulla Giustizia Riparativa e la Mediazione, nonché docente di diritto penale all’Università degli Studi dell’Insubria.

 

“La giustizia riparativa è un modello di giustizia che mette al centro le vittime, i loro bisogni e cerca una risposta costruttiva a un evento distruttivo, che è il reato” spiega Mannozzi.

 

Come lo fa? “Lavorando con strumenti dialogici si cerca di far venir fuori qual è il vissuto delle vittime, qual è la loro narrazione del reato. E questo storytelling per loro ha una valenza terapeutica, cioè le aiuta a sentirsi riconosciute.” A differenza della giustizia penale, quindi, dove a un reato si risponde con una pena, con la giustizia riparativa non si punta a imporre una punizione, ma si lavora per riparare al danno conseguente al reato.

Superare gli equivoci

Quando si pronuncia la frase “giustizia riparativa” dicendo che è stata concessa a un reo, le reazioni delle persone sono spesso quelle di indignazione e rifiuto. Questo accade perché solitamente non si conosce bene il funzionamento di questo tipo di programma e quindi si pensa subito a uno sconto di pena.

 

“C’è un fraintendimento di fondo, cioè che la giustizia riparativa sia una sorta di beneficio concesso all’autore del reato e invece non è così” – spiega Mannozzi. Questo fraintendimento spesso è dovuto anche all’uso di una specifica formula linguistica. “Mi è capitato di leggere sui giornali frasi come ‘è stata concessa la giustizia riparativa’, come se fosse un beneficio, uno sconto di pena o una scorciatoia per il perdono, ma non è così. Un programma di giustizia riparativa è emotivamente molto impegnativo. È molto più semplice subire una pena, perché questa non richiede nessuna collaborazione, bensì un atteggiamento passivo. - continua Mannozzi - Un percorso di giustizia riparativa, invece, significa raccontarsi, cercare di spiegare perché si è fatto qualcosa, chiedere scusa, avere la capacità di alzare lo sguardo sulla sofferenza dell’altro. Quindi è emotivamente molto impegnativo.”

L’obbligatorietà della pena

La nostra Costituzione prevede in realtà l’obbligatorietà dell’azione penale, e dunque, il reo è vincolato a scontare una pena per il reato commesso. L’obiettivo della giustizia riparativa, quindi, non è quello di sostituirsi a quella penale, ma di affiancarla.

 

“Per alcuni reati gravissimi il penale è indispensabile, non abbiamo strumenti migliori. Ma il penale può diventare più accogliente. – spiega Mannozzi - La giustizia riparativa non può vivere da sola come alternativa, va sempre letta in complementarità con il penale. Il suo obiettivo è quindi quello di rendere il penale più accogliente, più a misura d’uomo, più adatto a riconoscere i bisogni delle persone.”

La libertà di partecipare

Un altro equivoco che spesso viene fatto è pensare che la vittima sia obbligata a partecipare al percorso.

 

“I percorsi di giustizia riparativa non possono essere imposti, possono essere soltanto volontari. Se la vittima non intende partecipare per varie ragioni – perché, ad esempio, non si sente pronta, perché non è il momento giusto o perché non accetta o non crede in questo percorso – è liberissima di farlo. La buona riuscita di un programma di giustizia riparativa è la volontarietà di un incontro. – spiega Mannozzi - Nella giustizia riparativa ogni caso è un caso unico, particolare e concreto. Quindi va gestito cercando di individuare quali sono i bisogni e i desideri delle parti. Non si fa giustizia riparativa a tutti i costi, ma solo se serve e se non espone le vittime a sofferenza ulteriore.”

La vittima surrogata

E allora quando la vittima rifiuta di partecipare come si fa? Innanzitutto, partiamo con lo spiegare che la vittima può essere di due tipi: diretta, ovvero colei che ha subito il reato, o indiretta, ovvero che non ha subito direttamente il reato, ma ne subisce comunque le conseguenze; come, ad esempio, il caso dei famigliari che hanno perso un caro per un reato di omicidio.

 

“Quando una vittima rifiuta di partecipare a un programma di giustizia riparativa, quello che si può fare è esplorare il percorso con vittima surrogata. – racconta Mannozzi - In questo caso l’autore del reato parla con un’altra vittima che è pronta per questo tipo di percorso, che però non è la sua vittima, ma la vittima di un reato analogo. Ovviamente però questa scelta può generare del malcontento nelle vere vittime. E questa è una situazione, secondo me, molto delicata, perché i percorsi di giustizia riparativa devono servire alle vittime, sono fatti nel loro interesse, non possono danneggiarle.”

Gli strumenti della giustizia riparativa

“Il metodo principale utilizzato in Italia è quello della mediazione. La mediazione implica un incontro faccia a faccia, ma ci sono vittime che non hanno nessuna intenzione a incontrare l’autore del reato. – spiega Mannozzi - Non sempre la mediazione è il programma più adatto. Non è l’unico metodo, anche se in Italia è quello più sperimentato. Ci sono altri metodi come i cyrcle che possono non prevedere la presenza di vittime, almeno inizialmente. E ci sono anche i cosiddetti victim empaty grupos, in cui gruppi di vittime si raccontano.”

Superare i pregiudizi

“La cultura occidentale fatica a capire la giustizia riparativa. Siamo allevati da 2mila anni con un tipico modello di giustizia che è punitivo, ritorsivo e che risponde al male con altro male, cioè un male opposto e contrario: al male del reato si risponde con il male della pena. – spiega Mannozzi - Anche il modello scolastico è strutturato in forma punitiva: il comportamento non corretto all’interno della scuola viene sanzionato, ad esempio, attraverso la nota sul registro, la sospensione o l’espulsione. Siamo quindi allevati nella logica della punizione. Viceversa, non hanno nessuna difficoltà a comprendere la giustizia riparativa - che è un’etichetta moderna occidentale - le comunità aborigene canadesi, i maori neozelandesi, le comunità indigene australiane, i nativi centro-americani, perché quella è la loro giustizia. Ovvero una giustizia che si fonda sulla ricucitura dei legami sociali, sulla ri-accoglienza e sulla possibilità di compiere un gesto di riparazione.”

Cosa possiamo fare noi?

“Tanto per cominciare abbiamo bisogno di radicare la cultura della riparazione in un terreno che è poco adatto ad accoglierla. Da dove partire allora? Secondo me bisogna partire proprio dall’università. Formare i giuristi alla giustizia riparativa, perché non ne abbiano paura. – conclude Mannozzi - La chiave, quindi, è formare i giuristi, sensibilizzare la magistratura, l’avvocatura, tutte le persone che hanno il primo contatto con le vittime. Perché fare giustizia riparativa non significa soltanto fare una mediazione nel caso gravissimo. La giustizia riparativa inizia quando una vittima si rivolge a un ufficiale di polizia giudiziaria, quando viene sentita da un magistrato: serve un linguaggio adatto ad accogliere la sofferenza. La giustizia riparativa inizia lì, quando le persone sono trattate con rispetto, in modo dignitoso, professionale, garbato e accogliente. Questo è il primo tassello della Restorative Justice.”

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