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Il potere diseduca le nuove generazioni

Cronaca

Domenico Barrilà

©Getty

L’ambiente familiare e civile è il contributore più importante nei processi di formazione dello stile di vita, chi ricopre incarichi pubblici e dimentica questa premessa, diventa una minaccia

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Molti genitori e altrettanti politici sono accomunati da un errore persistente. Ignorano i nessi tra il proprio comportamento e il degrado della collettività.

La ragione di certe conseguenze lesive dell’interesse comune risiede nel fatto che l’educazione è una trasmissione “testimoniale”, ciò significa che ogni processo educativo dipende solo per una piccola frazione dalle parole, mentre un peso decisivo lo assumono le azioni. È di quelle, soprattutto, che si ciba la psiche dei recettori, ossia i cittadini, di qualsiasi età, figli inclusi. L’ambiente familiare e civile è il contributore più importante nei processi di formazione dello stile di vita, chi ricopre incarichi pubblici è dimentica questa premessa, diventa una minaccia.

Quando vi è uno scarto tra le parole i comportamenti, bambini e ragazzi danno credito ai secondi. Basterebbe guardare a quei genitori che si lagnano di incontrare difficoltà nel disciplinare l’uso degli strumenti digitali nei figli, dimenticando di essere parte decisiva del problema, essendo essi stressi grandi consumatori di nuove tecnologie, sovente con modalità adolescenziali.

Impossibile contrastare un comportamento discutibile, se l’educatore stesso ne è posseduto. L’effetto è ancora più ampio quando sono figure pubbliche a infrangere le regole. Un giornalista straniero sosteneva che il passaggio di un controverso leader italiano, non aveva cambiato le abitudini dei suoi concittadini, che avevano continuato a fare le cose di prima, la differenza era “che ora non se ne vergognavano più”. Questo è il peso educativo della politica e dei personaggi esposti, vale anche per quella gerontocrazia intemperante che popola le reti televisive e non perde occasione per montare spettacoli volgari e aggressivi, spesso a causa della difficoltà ad accettare il declino anagrafico e di ruolo.

Succede nel male, potrebbe accadere nel bene, anzi è già accaduto.

Nella primavera del 1948, il presidente del consiglio Alcide De Gasperi, appena eletto, si era recato a Napoli in visita ufficiale, prendendo alloggio presso l’albergo dell’intervistato. La sera andò via la corrente, le centrali elettriche erano ancora compromesse a causa dei danni riportati durante la guerra. L’albergatore, preoccupato per i disagi all’illustre ospite, bussò alla camera, regalandogli due candele. De Gasperi insistette per pagarle, ma incontrò la decisa opposizione della persona che lo ospitava.

“Ebbene -racconta quell’uomo- dopo due giorni ricevetti dal presidente del consiglio un vaglia telegrafico con l’importo delle candele e un sincero ringraziamento”. Avevo ascoltato questo ricordo nel 2004, quell’anno ricorreva il cinquantesimo anniversario della scomparsa dello statista trentino.

Un episodio minimo, in gioco vi erano un paio di euro, ai valori attuali, eppure quella vicenda possiede un significato simbolico enorme, perché pone l’accento su un elemento decisivo nel processo che chiamiamo educazione.

Ci ricorda che uno dei grandi pilastri della pedagogia familiare e civile di un paese si trova nell’assunto che chiunque ricopra una carica pubblica, dal bidello al

presidente della Repubblica, si deve considerare un educatore, sentendone la relativa responsabilità.

Più la carica ricoperta è importante, più si allarga l’ombrello della sua influenza pedagogica. Difendere un congiunto, che potrebbe essersi macchiato di una mancanza grave, gettando nella mischia il proprio potere, oppure reclutare un parente stretto in un fondamentale organo di governo, rappresentano prima di tutto pesanti gesti diseducativi, suscettibili di emulazioni.

Alcune pratiche nefaste come la raccomandazione sopravvivono proprio perché i politici e le persone che ricoprono ruoli importanti ne fanno larghissimo uso, legittimandole e rendendole pratica comune. Un messaggio che manda in frantumi la solidarietà sociale, ma la conseguenza più grave della raccomandazione è quella che definirei “indolenza sociale”, perché le vittime di tale pratica smetteranno di credere nelle istituzioni e adotteranno comportamenti sottilmente vendicativi, minando l’energia vitale della collettività.

Il veleno della contiguità, i presunti diritti di prossimità, fanno molto male ai gruppi umani, perché figli di istinti territoriali che avevano senso quando vivevamo nelle caverne e difendevamo, letteralmente, con le unghie è con i denti, lo spazio, la femmina, i cuccioli. Parlare di patriottismo oggi, quando il maresciallo Josef Radestky da quasi due secoli non è più governatore del Lombardo-Veneto, è un atto di stupidità umana, che serve solo a risvegliare quei sentimenti primitivi.

Una quindicina di anni fa ero stato avvicinato dal sindaco della località in cui mi trovavo. Era espressione di un partito molto severo con gli stranieri. Durante la mia conferenza mi ero concentrato sui vantaggi per lo sviluppo della psiche e delle relazioni rappresentati della cooperazione, dalla solidarietà, sentimento sociale. Le mie parole sembravano averlo toccato, così si era aperto. “Nei giorni scorsi mio figlio, un ragazzo africano che abbiamo adottato da bambino, è stato arrestato perché si è arrabbiato durante un controllo dei carabinieri, reagendo male. Perché tanta severità per mio figlio, che è un bravissimo ragazzo, spero non sia per il colore della sua pelle”. Dopo avergli espresso la mia solidarietà, mi domandai come si sarebbe comportato se quel ragazzo non fosse stato suo figlio.

Ricordo ancora la sincera commozione di quell’uomo, ma sento che il veleno della contiguità viene sempre più usato per alzare muri, discriminare.

In questi tristissimi giorni, in cui la vita pubblica ci suscita molte domande, reclamando diritti e privilegi inauditi, una boccata d’ossigeno arriva da una madre, capace di denunciare anche il proprio figlio, dopo avere trovato sul suo telefono dei video girati durante una festa tra minorenni, degenerata in abusi su delle dodicenni.

Stavolta il principio di contiguità è completamente saltato, l’interesse della società è prevalso su quello del proprio figlio, ogni stupido patriottismo è stato superato dal peso della responsabilità educativa, che non cerca vantaggi immediati e illusori, ma pesa col bilancino le conseguenze generali delle proprie omissioni, agendo di conseguenza.

L’esclusione della componente educativa dall’esercizio di un ruolo pubblico è la prima responsabile del degrado delle comunità. Non è un tema ideologico ma pedagogico, chi non lo comprende non può occuparsi della vita pubblica, se lo fa è colpa di chi si è fidato. Vale per tutti, nessuno escluso.

 

Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, è considerato uno dei massimi psicoterapeuti italiani.
È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra gli ultimi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, nonché il romanzo di formazione “La casa di Henriette” (Ed. Sonda).
Nella sua produzione non mancano i lavori per bambini piccoli, come la collana “Crescere senza effetti collaterali” (Ed. Carthusia).

È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/