Bullismo, le radici della violenza
Cronaca ©GettyIl bisogno di “deridere”, soprattutto il vantaggio di farlo contro figure inermi o poco inclini a reagire, spesso prende la mano e può diventare un grave atto di oppressione
Una ragazzina di prima superiore mi mostra la fotografia che conserva sul proprio telefono, contiene l’elenco dei suoi compagni di classe, ogni cognome è seguito, senza eccezione, da un soprannome. Commenta con un sorriso compiaciuto quella che in fondo è un’usanza antica.
Ce n’è per tutti i gusti, da prugna a tubero, da budino a istrice, da litio a polmone, con punte di creatività davvero notevoli, che esaltano un connotato, che sia o meno obiettivo, rendendolo caricaturale. Eppure, trattandosi in questo caso di una pratica generalizzata, gli effetti non risultano lesivi, non c’è un bersaglio preciso, qualcuno che si sente schiacciato dal gruppo, non c’è un crinale tra vittime e oppressori, è un gioco libero in cui ciascuno può restituire lo sgarbo, ripagare con la stessa moneta.
In questo caso il sistema si è organizzato democraticamente, forse in modo casuale, concedendo a tutti identiche opportunità, ma non sempre le cose vanno così. Il bisogno di “deridere”, soprattutto il vantaggio di farlo contro figure inermi o poco inclini a reagire, spesso prende la mano e può diventare un grave atto di oppressione. La sua potenza negativa nasce dall’illusione che abbassare gli altri possa fare sentire più alti, ma si tratta solo di una beffarda illusione ottica, di nessuna utilità sociale, il fatto è che prima di essere registrata come tale fa in tempo a degenerare, con esiti che a Belgrado, nei giorni scorsi, si sono toccati con mano.
Quella classe, infatti, è una sorta di isola felice, forse perché non ci sono asimmetrie tali da permettere l’individuazione di una vittima, ma sovente si impone una meccanica assai diversa, in cui si sceglie di sacrificare uno o più componenti, facendoli segno della derisione collettiva, dell’aggressività nascosta nelle piccole comunità, all’interno delle quali ognuno cerca di non diventare esso stesso quel bersaglio e per questo si accanisce contro un diversivo. Perché dietro questi atti antisociali si nasconde l’ansia di tutelare se stessi, spostando tutto il carico dell’operazione su pochi soggetti, così da permettere alle altre individualità di stare al riparo. Quando c’è un bersaglio predestinato, si punta su quello per distrarre l’attenzione negativa dalla propria persona, divenendo complici di azioni vigliacche che, tuttavia, non saranno mai a costo zero.
Quello che comunemente viene chiamato bullismo, in realtà non è altro che un modo sbagliato di elevarsi abbassando l’altro, ma non sarebbe possibile se il resto del gruppo prendesse posizione. Ogni volta che c’è un crimine di questo genere, ci sono dei renitenti che potevano dire qualcosa.
Purtroppo, l’emozione per la citata strage di Belgrado della scorsa settimana, quella in cui un ragazzino di tredici anni uccise otto coetanei e il custode della scuola, si è estinta troppo in fretta, invecchiando dopo poche ore, quando un altro giovane di una ventina di anni, che abitava una manciata di chilometri più a sud rispetto al piccolo pluriomicida, aveva replicato quelle gesta, con modalità
analoghe, un bilancio quasi identico, otto persone uccise e un contorno di tredici feriti. Questa fretta, figlia del bisogno di generare notizie che investono le emozioni, ci impedisce di ragionare consegnandoci sempre agli stessi errori, ma il movente di quella strage, al netto delle falle educative e biografiche del protagonista, si trova proprio nel gioco dei soprannomi, anzi nei mondi sottostanti.
Un amico del protagonista della strage racconta gli epiteti con cui lo si approcciava, dandogli del nerd, perché era uno studente modello, dello sfigato e altri nomignoli, ma soprattutto racconta della mancanza di sintomi predittivi. Kosta, infatti, era un ragazzo che a scuola andava benissimo, era solo un poco riservato, ma la pressione cui era sottoposto l’aveva addirittura spinto a chiedere un cambio di classe. Così, sotto la superfice calma dell’acqua, lui aveva stilato un elenco di coetanei da eliminare, con la freddezza del killer consumato. L’amico di Kosta racconta di alcuni compagni che lo tormentavano, compresa una ragazzina finita nell’elenco dei bambini da eliminare perché era diventata “il suo incubo”. A lei è finito un proiettile in testa, una ritorsione c’è quantifica il peso finito sulle spalle di un bambino innocente, reo solo di essere lui, a cui l’ambiente scolastico aveva reso la vita un inferno.
Pensavamo che gli Stati Uniti avessero l’esclusiva di queste mattanze, ma in un sistema chiuso e interconnesso, qual è oramai il nostro Pianeta, l’effetto contagio può colpire a distanza essendosi lo spazio talmente contratto da risultare spesso inesistente. Della doppia strage belgradese colpiscono le analogie con modelli alieni, sebbene la Serbia, pure rappresentando uno dei paesi la cui popolazione è più armata, non avesse mai mostrato segnali che portassero a questi esiti, come del resto il nostro paese.
Kosta, così come il ventenne autore dell’altra strage, rimane una vittima, che reagisce in modo sproporzionato di fronte a un sistema sociale e pedagogico che ignora i sintomi, sia quelli flebili che quelli vistosi, e poi si lava la coscienza con le fiaccolate.
Il bullismo, che appartiene e tutte le età, è uno dei fenomeni a cui abbiamo dato un nome, chiudendo la pratica, convinti di possederlo, di conoscerlo.
È stato così anche nella costruzione di celebre manuale diagnostico è statistico dei disturbi mentali, pieno di nomi e di codici, a cui però mancano l’anima, la persona e il mondo in cui essa si muove.
Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, è considerato uno dei massimi psicoterapeuti italiani.
È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra gli ultimi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, nonché il romanzo di formazione “La casa di Henriette” (Ed. Sonda).
Nella sua produzione non mancano i lavori per bambini piccoli, come la collana “Crescere senza effetti collaterali” (Ed. Carthusia).
È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/