La scrittrice Espérance Hakuzwimana sospende il suo tour (anche) per episodi di razzismo

Cronaca

L’autrice, nata in Ruanda e poi adottata da una famiglia italiana e cresciuta a Brescia, ha denunciato in un post su Instagram le ragioni che l’hanno portata a fermare il tour promozionale per il suo romanzo

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“Siamo A Pezzi Tour’ finisce perché - guarda un po’ - sono a pezzi io”. Inizia così il post pubblicato su Instagram da Espérance Hakuzwimana sul suo account @unavitadistendhal. La scrittrice 32enne, che come riporta Einaudi è nata in Ruanda e poi è stata adottata da una famiglia italiana e cresciuta a Brescia, ha scritto: “Fare un tour promozionale per il tuo primo romanzo pubblicato con una casa editrice importante è un privilegio. Fare un tour promozionale di sei mesi fatti di trentasette date in giro per l’Italia e altre diciannove in arrivo è un privilegio, sì”. Per poi spiegare le ragioni che l’hanno portata a fermarsi.

Le ragioni dello stop

“Farlo senza essere benestante, con la salute mentale ai minimi storici, portando in giro non solo la trama del tuo romanzo ma vere e proprie formazioni su antirazzismo, adozione e inclusione, risvegliando ogni sera i traumi al momento delle domande dal pubblico, dovendo contemporaneamente proteggere il mio vissuto, il mio corpo, consegnare altri due libri, pensare ad altre diciannove date e pagare affitto e bollette senza guadagnare niente da tutto questo lavoro effettivo ed emotivo è un incubo”, ha spiegato Hakuzwimana. “O forse è solo la vita di una scrittrice trentenne razzializzata senza un soldo. Non lo so. Tutta questa intersezionalità addosso, fuori dallo schermo mi confonde scusate”.

“Io non ci sto, non lo accetto”

“Fatto sta che io non ci sto, non lo accetto. Questa dinamica massacrante non la voglio alimentare”, ha scritto. “Non io, non qui, non con quello che scrivo, con la persona che sono diventata. Perché mi sono ritrovata distrutta. Nel senso più profondo e lineare del termine. E a farlo non sono stati solo certi episodi di discriminazione che mi sono caduti addosso andando in giro per 15 città, una macchina straordinaria e atroce come quella del mondo editoriale o la continua richiesta di me, solo di me quando io volevo raccontare una storia anche se sapevo che sarebbe stato impossibile. Ma anche la continua sensazione di dovere qualcosa a qualcuno quando già c’era un libro, una storia, sei anni di lavoro e tutta quella cosa che voi chiamate attivismo e che confondete con performance, protagonismo e chissà cos’altro”.

Scott Adams, cartoonist and author and creator of "Dilbert", poses for a portrait in his home office on Monday, January 6, 2014  in Pleasanton, Calif. Adams has published a new memoir "How to Fail at Almost Everything and Still Win Big: Kind of the Story of My Life". (Photo By Lea Suzuki/The San Francisco Chronicle via Getty Images)

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“Ho annullato tutte le date in programma”

“Così ho annullato tutte le date che c’erano in programma perché svegliarmi piangendo e andare a dormire con la tachicardia è una cosa che non auguro a nessuno”, ha spiegato ancora la scrittrice. “Soprattutto per una cosa che dovrebbe essere bella ma alla fine così tanto bella, accessibile, gloriosa e facile non è. Ci ho provato come ho potuto. È andata, è finita. Nel migliore dei modi possibili perché mi sono ascoltata e mi sono fidata di me, e delle persone che mi vogliono bene e che mi hanno detto ‘proteggiti’. Così mi proteggo, salvo me e tutte le storie future che voglio scrivere”.

“A Mantova mi hanno chiesto se sapessi l’italiano”

La scrittrice ha poi accompagnato il post con questa didascalia: “A Mantova mi hanno chiesto se sapessi l’italiano. A Pescara un vecchio mi ha guardato e si è toccato in mezzo alle gambe. A Brescia ho sentito il veleno. Sul treno per Bologna un signore mi ha chiesto il numero e quando ho risposto di no mi ha dato della ne*ra. A Lisbona non ho dormito per una notte intera perché sul conto avevo meno di 20 euro e tutti gli imprevisti possibili mi aggredivano. A Roma ho perso il primo sangue. A Pordenone mi hanno chiamato “cioccolatino”. A Lecce per poco non mi adottavano illegalmente un’altra volta. A Milano la polizia ha fermato me e i miei amici. A Torino un uomo mi ha parlato di tribù e colonialismo positivo. A Firenze hanno scommesso sulla mia nazionalità. A Pavia, a Prato, a Bologna e in Sardegna non ho preso niente perché non avevo un soldo. A Salerno ho perso i sensi. A Biella ho pianto perché mi sembrava tutto assurdo”.

“Torno a fare l’unica cosa che voglio fare”

“Sono almeno sei giorni che tra i sensi di colpa mi ripeto "Espérance va bene così". Ché la cura è necessaria per sopravvivermi e vivere”, continua la didascalia. “Perché mi merito questo: vivere e provare gioia, e stare nell'immaginazione e nell'amore che ho trovato altrove.  E poi per me e, come mi ha detto Martina, per tutti i miei libri che verranno. Perché è questo quello che faccio, no? Scrivere. Allora torno a fare l’unica cosa che voglio fare e che mi viene bene. Tutto il resto erano pizzichi di meraviglia misti a chili di fatica e salite, e prima poi finiscono anche quelli. Per fortuna, per fortuna. È stato davvero bello. Grazie sempre a chi crede nei libri e nelle storie; dai librai ai festival, dalle lettrici e i lettori a chi stampa, corregge, rilegge, edita e si sacrifica. Mi dispiace tanto per chi mi aspettava. Davvero. Ma vi giuro che è mille volte meglio una scrittrice in salute, felice e libera che una dimezzata nell'anima, con il cuore piccolo. Magari non lo si capisce subito, ma la prossima storia ve lo mostrerà meglio di me. Promesso. Ci si rivede qua e là. E comunque ora sugli scaffali c’è un libro che parla di un fiume, di ragazza piena di domande e dei ragazzi di Basilici che vincono le guerre in lingua. Mi sembra tantissimo. Mi sembra già bellissimo. Ci vediamo alla fine del Sele. Buone parole”.

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