Marmolada, non avremo mai il controllo di tutto (malgrado sia il sogno di oggi)

Cronaca

Domenico Barrilà

Un frame tratto dal video fornito dal soccorso alpino mostra Il seracco di ghiaccio crollato sulla Marmolada, nei pressi di Punta Rocca, Trento 3 Luglio 2022. ANSA/SOCCORSO ALPINO

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Non abbiamo il controllo di tutto né mai l’avremo, malgrado sia il sogno di oggi, insieme all’onnipotenza e all’immortalità. Sogni che stanno illudendo e nevrotizzando grandi e piccoli

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Non c’erano incoscienti lassù, niente improvvisatori, tutti esperti, supportati da guide alpine. Eppure, è accaduto lo stesso. Non abbiamo il controllo di tutto né mai l’avremo, malgrado sia il sogno di oggi, insieme all’onnipotenza e all’immortalità. Sogni che stanno illudendo e nevrotizzando grandi e piccoli.

Da qualche giorno mi trovo proprio qui, vicino alla frana, ma non avevo capito nulla. Forse non avevo nemmeno capito cosa significa “vicino”, è così che in genere si consuma il nostro rapporto con il prossimo e con gli eventi che lo riguardano, nella consapevolezza, quasi sempre fallace, di avere le carte per capire cosa abbiamo di fronte.

Lentamente si smarrisce il confine tra virtuale e tridimensionale, ma siamo solo all’inizio. Già adesso siamo raggiunti da racconti che si perdono in mezzo a tanti altri racconti, una catena infinita di stimoli e di fotogrammi, che per assuefazione perdono significato. Alla fine, tutto si mischia e diventa indistinguibile.

Notizie reiterate, importanti certo, che non diventano mai apprendimenti.

Poi mi sono imbattuto in una persona cara che vive qui, proprio sotto alla Marmolada. Da poche ore è in lutto per la perdita dell’anziana madre, morta all’improvviso. Tristezza e malinconia sono forti, eppure mi racconta un altro dolore, quello di un congiunto che presta servizio presso la protezione civile. Gli occhi le diventano lucidi.

Si vedono tutti i giorni, è una famiglia molto unita. In queste ore lui è stabilmente impegnato sui luoghi della frana, è un ragazzo mite ma solido, mi è accaduto di incontrarlo qualche volta, un giovane padre molto affettuoso coi suoi bambini.

Si è trovato a contatto “tridimensionale” con ciò che nessuno di noi potrà vedere, corpi finiti dentro un uragano di cristalli taglienti, così è il ghiaccio quando si muove senza controllo, frantumandosi.

Nelle ore dopo gli eventi, lo raggiunge un altro padre, trepidante, lo guarda timidamente negli occhi, gli chiede del figlio 26enne, finito là sotto e che ora non si trova. Il giovane disperso, per uno dei tanti giochi del caso, porta il nome del bambino dell’operatore, che ora si trova di fronte quel padre le cui espressioni lo travolgono. Un’altra frana che non si vede, potente quanto quella assassina.

Per fortuna ci sono gli psicologi in cima, che si occupano anche dei soccorritori, molti dei quali non avevano mai visto corpi scomposti in modi così indecifrabili, puzzle cui mancano tantissime tessere. Anche chi fa il mio mestiere, può mettere insieme delle buone parole, ma non può rovesciare la freccia del tempo. Ciò che è perso è perso.

Il padre in cerca del figlio, posto di fronte alla montagna più alta della sua vita, capisce, sebbene nessuno parli, che è finita. Non c’è bisogno di parole nella realtà tridimensionale, interazioni lunghe milioni di anni le rendono inutili, basta stare vicini per capire, prima delle parole era così che accadeva, una competenza miracolosamente sopravvissuta, che rischiamo di perdere per sempre sotto i colpi della virtualizzazione. Una frana, anche questa, sulla nostra umanità.

E poi ci sono altri genitori, cui si preferisce non mostrare ciò che è rimasto dei loro figli, troppo grande il salto. Così, per risalire alla loro identità, si interpellano parenti pietosi.

Nessuno di noi si è mai trovato di fronte a scene del genere, che cambieranno definitivamente vite, anche di chi è rimasto sopra i detriti e non ne è stato neppure sfiorato.

Si tratta di chi c’era e ha visto. Sfortunati, certo, ma anche fortunati, perché ora conoscono l’abisso che separa virtuale e tridimensionale, gli effetti che produce l’uno e che non produce l’altro.

Insieme a tutti coloro che “vedono” e “toccano”, sono edotti, e almeno ai loro figli non racconteranno scene in cui muori e risusciti, ti fai male e ridi, perché è proprio questo il sasso che rifiutiamo di vedere e sul quale inciamperemo.

È giusto che la virtualità avanzi insieme alle nuove tecnologie, ma quando smonta pezzi fondamentali di noi e li sostituisce con un vuoto in cui tutto accade per finta, è il cemento con cui siamo fatti che viene meno. Vale per la guerra e vale per la pace. Vale per tutti i giorni.

“Le teorie sono una bella cosa ma non impediscono alla realtà di esistere”, amava dire un grande neurologo, vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento.

Non vorrei che l’impresa, fallita dalle teorie, ora riuscisse alla virtualizzazione.

Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, è considerato uno dei massimi psicoterapeuti italiani. È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra gli ultimi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, nonché il romanzo di formazione “La casa di Henriette” (Ed. Sonda). Nella sua produzione non mancano i lavori per bambini piccoli, come la collana “Crescere senza effetti collaterali” (Ed. Carthusia). È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/

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