È morto Boris Pahor: il suo "Necropoli" è un capolavoro del '900 europeo

Cronaca

Filippo Maria Battaglia

Boris Pahor
Author and concentration camp survivor Boris Pahor speaks during the opening of the exhibition 'Last Witnesses: Memories of the Fascist Camp Internees' at the Neugamme Concentration Camp Memorial in Hamburg, Germany, 25 June 2014. ANSA/AXEL HEIMKEN

Nato a Trieste il 26 agosto del 1913, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, è stato più volte accreditato per il Nobel

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Ci sono, ovviamente, molti modi per raccontare chi sia stato Boris Pahor, scomparso oggi all'età di 108 anni a Trieste. Tutti (o quasi tutti) partono inevitabilmente da un campo di concentramento di Natzweiler-Struhof e da un viaggio in una domenica estiva di più di mezzo secolo fa. Di quel viaggio, avvenuto prima del 1966, non si conosce la data esatta. Pahor non ha ancora compiuto 53 anni, è un insegnante sloveno con all’attivo diversi romanzi, in gran parte incentrati sul tema dell’identità.  È una scelta quasi inevitabile per chi – come lui – ha assistito prima all’emarginazione e poi alla violenta discriminazione ai danni degli sloveni da parte del fascismo. Quel clima, e quell’ingiustizia, tornerà  spesso nei suoi romanzi e nelle sue memorie: più volte Pahor ricorderà l’incendio del 13 luglio 1920 del Narodni Dom, la Casa del Popolo e il simbolo dell’identità slovena in città,  nei giorni “in cui i libri delle nostre biblioteche erano stati accatastati davanti al monumento di Verdi e la gente se la godeva a vederli bruciare”.

La diserzione, il Fronte e l’internamento nei campi

Quella ferita, mai del tutto rimarginata, ne segnerà le scelte. Dopo essere arruolato e inviato al fronte in Libia, con l’armistizio del ’43 Pahor diserterà il proclama dell’autorità militare tedesca, aderirà al Fronte di Liberazione nazionale sloveno ma verrà arrestato e consegnato alla Gestapo. Trasferito a Dachau, sarà internato in diversi campi di concentramento, dove riuscirà a sopravvivere grazie alle mansioni di infermiere.

Il ritorno a Natzweiler-Struhof

Il primo di quei campi è a Natzweiler-Struhof, tra i monti Vosgi. Ed è lì, a qualche decina di chilometri da Strasbrugo, che Pahor ritornerà prima della fine del ’66, mimetizzato in un gruppo di turisti impazienti di conoscere cosa sia stato davvero l’abominio nazista. Da questo viaggio (e da questo ritorno) prende avvio “Necropoli”, uno dei capolavori della letteratura concentrazionaria. Che non è – vale la pena chiarirlo subito – solo una testimonianza di imprescindibile valore documentario sullo sterminio nazista.

È innanzitutto il racconto di un timore: quello che il tempo possa scolorire l’enormità di un male, di un dolore e di una disperazione incomprensibili per chi non le ha direttamente vissute sulla propria pelle. Pahor si fa carico di esplicitarlo sin dalle prime righe del suo libro con  una capacità di analisi lucidissima, quasi affilata, che sarà la cifra di tutto il suo racconto: “Lo ammetto – scrive –  non riesco ad accettare fino in fondo l’idea che questo posto di montagna, cardine del mio mondo interiore, sia visitabile da chiunque; e soffro anche un po’ di gelosia: non soltanto perché oggi occhi estranei percorrono uno scenario che fu testimone della nostra anonima prigionia, ma anche perché questi sguardi curiosi (ne sono assolutamente certo) non potranno mai penetrare nell’abisso di abiezione in cui fu gettata la nostra fiducia nella dignità umana e nella libertà personale”.

È uno snodo centrale, questo, che, riletto oggi a distanza di oltre mezzo secolo dalla sua stesura e con la scomparsa della maggior parte dei sopravvissuti alla Shoah, diventa forse ancora più ultimativo e attuale. Ma non è il solo aspetto che rende questo libro uno dei capolavori della letteratura dello sterminio, accanto agli scritti di Primo Levi e Imre Kértesz.

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La colpa di chi è sopravvissuto

Nel suo libro, come in quelli di Levi, Pahor affronta anche l’insormontabile demone della “colpa” avvertita da chi è sopravvissuto. Lo fa quando ammette i piccoli compromessi quotidiani, quando racconta lo scambio di una sigaretta per un tozzo di pane, quando ricorda l’utilizzo di un brandello di indumento sottratto dal corpo di un compagno appena morto. Lo fa, soprattutto, quando si prende carico delle storie di chi non è tornato, fino ad ammettere esplicitamente: “Vorrei dire qualcosa ai miei compagni, ma ho la sensazione che tutto ciò che riuscirei a dire sarebbe insincero. Io sono vivo, perciò anche i miei sentimenti più schietti sono in una certa misura impuri”. Eppure, quella colpa non schiaccerà mai Pahor e la sua vitalità, in questo trovando una coerenza letteraria anche nelle sue opere. A differenza di altri grandi autori, infatti, nei suoi romanzi le forze che annichiliscono sono quasi sempre contrastate con successo dalla libertà e dalla solidarietà umana.

Il paradosso identitario

Come tutti i grandi libri di testimonianza, anche in “Necropoli” c’è ovviamente il riflesso, biografico e dunque personalissimo, del suo autore, a cominciare dal conflitto identitario covato per anni in quelle terre.  "Noi sloveni del litorale - scrive Pahor - affermavamo ostinamente di essere jugoslavi. Il cuore e la mente si ribellavano al pensiero di essere eliminati come appartenenti a una nazione che, dalla fine della prima guerra mondiale, aveva sempre tentato di assimilare gli sloveni e i croati”. È una considerazione discutibile, che ha fatto giustamente osservare a Claudio Magris come non sia stata “la ‘nazione’ italiana a opprimere gli sloveni, così come non è ‘la nazione’ slovena o croata o serba responsabile delle violente e indiscriminate ritorsioni compiute alla fine della guerra contro gli italiani”.

Più volte, negli anni, Pahor tornerà su questi temi, evitando di schermirsi dietro frasi edulcorate, e assumendo anche posizioni controverse.

La riscoperta e la traduzione all’estero

Per la riscoperta del Pahor narratore occorrerà così aspettare gli anni Ottanta: i riconoscimenti arriveranno prima in Slovenia, col premio Prešeren, e poi, via via, dagli altri Paesi, con la traduzione e la ristampa di tutte le sue opere e la segnalazione all’Accademia di Svezia per il Nobel.

Questa tardiva riscoperta non intaccherà la compostezza e il proverbiale understatement dello scrittore, deciso più che mai a evitare di essere trasformato in un santino laico. 

Fino all'ultimo, Pahor si interrogherà sul valore della memoria per le nuove generazioni. Restando così fedele ai dilemmi e agli interrogativi custoditi nel suo capolavoro: “Continuo a starmene disteso, immobile, perché non so come fare a radunare gli abitanti delle baracche cupe davanti a questi giovani che sono i germogli dell’immortale stirpe umana”.

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