Coronavirus, il racconto di Renato Coen guarito dal Covid-19
CronacaCome si vive in isolamento in ospedale? Quali sono le difficoltà che i sanitari devono affrontare per dare assistenza a chi è malato? Renato Coen ci racconta la sua esperienza all’Ospedale Sacco. È il racconto di un testimone, malato non grave e con un decorso positivo
La sera del 10 marzo l’ospedale Sacco mi sembra una città sterminata. Ho 39 di febbre e giro a piedi per le strade vuote tra i padiglioni ospedalieri alla ricerca di un edificio che non riesco a trovare. La tosse e la febbre non aiutano la mia lucidità. Ho appuntamento per fare un tampone dopo due giorni di febbre alta e tosse. Dopo mezz’ora di ricerca la vista del dottore con cui avevo concordato di incontrarmi mi sembra la fine di un incubo. Tutto si sarebbe risolto. Avrei fatto il tampone, sarei tornato a casa, così mi era stato detto, e il giorno dopo avrei avuto la prova che avevo solo preso un’infreddatura dovuta a troppa leggerezza nel vestirmi. Milano e il suo clima ancora mi sorprendono.
Entro con la mia guida nel pronto soccorso. La signora all’accettazione mostra poca disposizione e pazienza. Si innervosisce quando non capisce le mie parole frenate dalla mascherina. Ma nello stesso tempo non sopporta quando sono io a chiederle di ripetere le sue, anche esse smorzate dalla sua di protezione. Il vetro che ci divide è un’ulteriore barriera. Indispensabile però. Salvavita per lei, garanzia per me.
Ho una sete enorme e ho bisogno di sedermi, sono disidratato, febbricitante e stanco. Le chiedo se per favore posso allontanarmi di dieci metri a prendere una bottiglia d’acqua alla macchinetta. Mi guarda come se l’avessi insultata. Capisco che non è aria e aspetto. Non trova il mio nome e il mio numero sanitario nel sistema. Dopo due minuti lei si gira e io scappo! Vado alla macchinetta. Apro una bottiglia d’acqua e mi sembra di tornare come nuovo!
Intanto il dottore che mi ha accolto è all’interno ad aspettare e a organizzare il tampone.
Finalmente il mio nome acquista un’identità anche per la responsabile dell’accettazione. Anche per lei esisto. Altro buon segno.
Entro nel reparto di pronto soccorso e mi fanno subito accomodare. Mi prelevano il sangue, mi infilano il tampone nel naso, poi mi portano a fare le lastre ai polmoni. I sintomi preoccupano.
Chi mi fa le analisi però sorride e scherza, mi tira su di morale, si scusa per il fastidio provocato dal tampone infilato nel naso. Ringrazio e mi chiedo cosa, alle 8 di sera possa ancora spingere al buonumore questi ragazzi così sotto pressione.
“Questa sera lei rimane qui”. Mi dicono però con lo stesso sorriso.
“Ma come! Mi avevano detto che avrei atteso a casa l’esito”.
“Non se ne parla, ha la febbre alta, se tutto va bene va a casa domattina”.
Mi portano in uno stanzone attiguo, neanche una corsia d’ospedale. È solo una grande sala con letti di ultima generazione dove sono poggiati altri tre pazienti, ognuno sospeso in attesa di giudizio.
L’attesa mia, dei miei familiari e dei miei colleghi sale. Per tutti un’eventuale positività vorrebbe dire quarantena. Mia moglie e mia figlia sono a Roma da qualche giorno, già chiuse in casa. Il tg dove lavoro dovrebbe chiudere da un momento all’altro per far scattare un piano di emergenza che gli consenta di andare in onda nonostante tutto. Per continuare ad informare. Trasmettere in un assetto precario dalla piccola redazione di Roma invece che dalla grande di Milano. Con decine di colleghi improvvisamente inattivi e costretti in casa a causa della mia positività.
No, sarebbe troppo complesso. Una cosa troppo grande. Tutto per un po’ di febbre. Andrà tutto bene mi dico. E mi rilasso, se non fosse che una volta dissetato mi manca ciò che ormai a noi esseri umani è vitale quanto l’acqua: la carica del cellulare! Stupidamente l’ho lascata a casa convinto di tornare. Da fuori continuano a chiedermi notizie e il 24% che lampeggia mi fa pensare ad una clessidra dove la sabbia scende troppo velocemente.
Dopo un’ora arriva un’infermiera, anche lei ha voglia di scherzare. Mi guarda e mi dice: “Ho i risultati delle lastre: buone notizie, i polmoni stanno bene!”
“Ottimo, grazie!”
“Le analisi del sangue invece….
“Invece?....”
“Invece Pure! Ah ah ah ah! La trasportiamo al piano di sopra tra quelli che stanno bene, in attesa del risultato del tampone che arriverà domani mattina”.
Fa pure l’ironica, penso! E lo penso con ammirazione, anche se in quei due secondi di pausa scenica, il suo spirito non mi ha divertito moltissimo.
Già mi sento parte di “coloro che stanno bene”, tutto andrà a posto, deve passare la notte, e che il cell resista!
Spostato al piano di sopra inizio a capire cosa vuol dire isolamento. Sono un potenziale positivo al coronavirus. Mi mettono in una stanza da solo, mi indicano guanti e mascherina e mi dicono di metterli nel caso qualche operatore sanitario entri in stanza. Mi portano del cibo in una busta di plastica, ma non in stanza, me lo lasciano fuori e mi dicono da oltre la porta di aprire e prenderlo non appena si sono allontanati. Non ho molto appetito, ma mangio il pasto che mi viene portato dall’operatore sanitario che trionfante annuncia: l’ha preparato Cracco! Altre risate, altri scherzi. A distanza, con guanti e mascherina, divisi da una porta chiusa. Ma forse proprio per questo la battuta è più apprezzata.
Mangio. Do le news del caso a moglie e capi del lavoro, spengo il telefono e mi metto a dormire, distrutto, ma in fondo ottimista….
“Buongiorno. Lei è positivo”
Ore 6.30. Non so perché ma già sono sveglio. Oggi qualcosa succede, è inevitabile che non poltrisca in un’anonima stanza di pronto soccorso ancora mezzo vestito su un letto ancora fatto.
Sento ancora la febbre e il fiato corto. Accendo il telefonino che dopo qualche istante si mette a vibrare per l’arrivo di un messaggio. È il dottore che mi ha fatto fare il tampone.
Ore 4.35: BUONGIORNO, IL SUO TAMPONE È RISULTATO POSITIVO.
Porca miseria! Il primo pensiero? Non la mia salute. Ma la notizia in sé. Le conseguenze che questo vuole dire per decine di persone. Mia moglie e mia figlia, il dispiacere, il disagio, il senso di sfida, la novità della prova da superare per la mia famiglia e più ancora i miei colleghi. Il primo pensiero è la portata del cambiamento che il risultato di quel tampone implica per decine di persone, è questa la notizia. E in un gusto quasi perverso, penso per un baleno che è una notizia che per ora conosco solo io!
A parte le psicopatie professionali sono ben deciso a condividere al più presto la novità. Chiamo i responsabili e amici del tg, li sveglio e li avviso. “Buona fortuna ragazzi!” Penso. Loro cercano solo di tranquillizzarmi ed essermi di aiuto e conforto. Io mi sento confuso ed ho bisogno di parlare con mia moglie.
Mi tranquillizza anche lei. È incredula, come me. La sento sorridere. Mi aiuta.
La mattina parte presto in ospedale, mi tirano fuori altro sangue, poi mi portano il tè. E non ci sarebbe nulla di male, se non fosse un po’ di liquido in un piatto fondo di carta. “Come i gatti!” Mi dice un amico che in quel momento mi aveva chiamato! Beh sì, non riesco neanche a inzuppare il biscotto. Le dotazioni in emergenza sono quel che sono… E chi se ne frega, in effetti. Dovrei preoccuparmi di ben altro.
Dovrei preoccuparmi ad esempio del fatto che la febbre non scende e che lo strumento per vedere la saturazione del sangue dà un livello d’ossigenazione troppo basso. In dieci minuti mi mettono le cannule d’ossigeno al naso.
Mi chiama il medico che mi ha ricoverato per chiedermi se posso rimanere in isolamento a casa, alla mia risposta entusiasta mi chiede qual è al momento il mio stato. Gli dico dell’ossigeno. “Allora niente da fare, la ricovero, come non detto, arrivederci”.
Ci siamo, mi dico, mi serve tutto, non solo la carica del cellulare, che nel frattempo sta consumando i suoi ultimi istanti di vita.
Arriva un medico, o un infermiere, sono tutti così bardati e protetti che non riconosco sempre i loro ruoli dall’abito. Mi spiega che temono mi si stia sviluppando la polmonite. “Anzi forse già ce l’ha, per questo le abbiamo messo l’ossigeno”. La voce in effetti mi si sta abbassando e immagino sia un esito inevitabile.
Avviso mia madre, avviso mia moglie e i miei capi che vogliono essere aggiornati. Riesco a dare le ultime istruzioni a chi si offre miracolosamente di portarmi una carica del cellulare. E poi il telefono muore ed io inizio la mia attesa. Attesa del principio ufficiale del mio ricovero, finché non mi trasferiscono nel primo girone dei malati ufficiali di coronavirus.
Padiglione 56
Alle 14 circa, dopo un breve tragitto in ambulanza all’interno del Policlinico vengo accolto con cortesia e sorrisi al secondo piano del padiglione 56. Ho imparato il mio “indirizzo” ascoltandolo da chi mi accompagnava.
Mi sistemano in una stanza doppia, mi mettono al letto e mi riprendono tutti parametri del caso. C’è una dottoressa, molto rassicurante. Afferma che la polmonite per ora non ce l’ho, la febbre sì, alta, e quella per ora è il problema, mi toglie l’ossigeno e poi aggiunge: “Da questa sera inizieremo una cura antivirale, sarà un po’ dura ma abbiamo visto che è efficace”. La ringrazio. Lei esce.
Mi giro verso il mio compagno di stanza che mi dice: “Minchia quelle pasticche sono delle bombe assurde, mi hanno distrutto. Ma ora sto bene e mi stanno dimettendo”. Infatti in mezz’ora se ne va e rimango solo, a cercare di capire dove sono finito. Dove sto andando.
Non sono ancora preoccupato. Il respiro non va molto bene. Ma sarà per tutti i rivolgimenti della giornata, per l’atteggiamento rassicurante dei sanitari, sarà la solidarietà ricevuta da fuori, ma tutto per ora non mi sembra altro che un’avventura, spiacevole ma non drammatica, alla mia età posso superarla tranquillamente.
Miracolosamente arriva anche un caricabatterie. Riattacco il telefono. E scopro che come uno tsunami frantumatosi in milioni di rivoli d’acqua la notizia della mia malattia e del mio ricovero ha fatto il giro non solo di tutte le persone che mi conoscono e che mi vogliono bene, ma anche di quelle che mi conoscono solo di vista, o che non hanno rapporti con me da anni, o che neanche mi vogliono bene!
Evidentemente dalle comunicazioni ufficiali del mio Tg la notizia è uscita su qualche sito di informazione on-line, e di lì il passaparola è molto breve. Mi chiama una giornalista di un’agenzia di stampa che inizia a chiedermi informazioni sulla mia anamnesi. Prima le rispondo cordialmente, poi cerco di farle capire di aver bisogno di un minimo residuo di privacy. Mi chiama una radio che cerca di ironizzare, un po’ a sproposito, su quanto mi sta accadendo, e mi scrivono decine e decine di persone. Chissà perché, decido bisogna rispondere a tutti, ringraziare ognuno, non tralasciare nessuno. Rispondo al telefono, parlo, scrivo, sono diventato pr di me stesso.
Il problema è che chiunque lavori in tv seppure abbia un pubblico ridotto amplifica l’evento che gli accade, suo malgrado. E così una malattia che colpisce decine di migliaia di connazionali, spesso in maniera molto più invasiva di quanto non stia accadendo a me, è diventata da qualche parte nel mondo dell’informazione un’ennesima piccola notizia da dare. Chi non mi conosce neanche la nota, chi mi conosce, seppur lontanamente invece sì, e lo dimostra facendo vibrare il mio telefonino.
Passano così le ore con la febbre che non scende, il respiro che resiste, ed io concentrato non sul Covid-19 ma nel tranquillizzare chi mi scrive allarmato.
Alla sera si apre la porta ed entra il mio nuovo compagno di stanza. È in sedia a rotelle. Attaccato all’ossigeno. Lo stendono sul letto accanto a me, mentre lui tossisce, tossisce, di una tosse secca e senza tregua. Lo saluto e capisco subito che non sta bene.
Intorno a lui due operatori sanitari protetti da camice, mascherina, cuffia e guanti lo posano sul letto. Un infermiere gli dà gentilmente le istruzioni base e gli offre le prime medicine del caso. Lui ringrazia. Non ha la forza di essere gentile, sta male. Ha una doppia polmonite.
Nello stesso tempo l’infermiere mi mostra un numero di telefono appeso al muro di fronte al letto. “Se hai bisogno di qualcosa non suonare il campanello, prendi il cellulare e chiama quel numero. Rispondiamo noi qui in reparto. Così è più facile. Tu già ci dici di cosa hai bisogno e noi veniamo da te in stanza già attrezzati. In questa maniera ci vestiamo una sola volta per venire. Altrimenti dobbiamo entrare, chiedere cosa desideri riuscire e poi rientrare e le vestizioni si moltiplicherebbero”.
Queste sono le regole in un reparto di malattie infettive. Questo è il minimo che può consentire ad un operatore sanitario, un infermiere, un medico di poter continuare a svolgere il proprio lavoro in relativa sicurezza.
Protezioni
La mia stanza ha un’anticamera. Una sorta di camera di decompressione dove chi si occupa di noi deve prepararsi. Questo spazio in realtà dà accesso a due stanza gemelle. In una ci sono io col mio nuovo compagno, nell’altra una coppia di signore.
Chi entra da noi si prepara nell’ingresso mettendosi una cuffia, una mascherina, accompagnata spesso un’ulteriore protezione di plastica solida messa a mò di barriera a proteggere bocca e naso, due paia di guanti monouso, ed un camice verde impermeabile.
Appena trattato un paziente, ancora in stanza, gli operatori si tolgono una delle due paia di guanti che indossano. Con un igienizzante si lavano le mani che ancora calzano gli altri guanti ed infilano un nuovo paio di guanti per fare il resto del lavoro.
“Così trovare la vena per prenderti il sangue è impossibile!” Quasi si giustificano ogni tanto, non riuscendo con due strati di lattice addosso ad avere la giusta sensibilità per infilare un ago. Il caldo che soffrono mentre lavorano, lavano i malati, rifanno i letti, puliscono pazienti non autosufficienti, distribuiscono terapie, e confortano, è a volte insostenibile. Ma sorridono, ci scherzano su e quasi a volte sono tentati di darti una carezza.
Il mio vicino di letto non ha voglia di parlare. Ma di lamentarsi sì, e lo capisco. Io d’altra parte, da quando la sua sofferenza è entrata dalla porta sono come inibito. Ho paura di scrivere i messaggi per non sembrare indifferente e asociale. Parlo con i miei familiari con un filo di voce. Loro si preoccupano, mi chiedono se mi sento male, ed io mi accorgo che lo faccio per non disturbare chi mi soffre accanto. Del resto è uno scrupolo senza senso e infondato. L’uomo di fianco a me pensa a tutto meno che a me e a quel che racconto a mia moglie. Cerca di trovare un equilibrio tra la maschera d’ossigeno che paradossalmente gli dà un senso di soffocamento e l’esigenza di respirare meglio proprio attraverso di essa.
Si chiama Mauro. Porta con un gran fisico asciutto i suoi 58 anni di uomo allenato. Mi parla del suo compagno, che è a casa e si preoccupa per lui. E tossisce, forte, devo ammettere senza grande attenzione a me che gli sono steso a poco più di un metro.
Lui non ha forza, umore e tempo per preoccuparsi di altri che non siano il suo malessere. Io invece sì! Sto meglio di lui. Vedo a sera inoltrata un’infermiera che entra in stanza irriconoscibile ed iper coperta, lui tossisce, ed io penso: “Ma perché devo essere l’unico idiota che non ha un filo di protezione di fronte a questo zampillare di particelle di Coronavirus?” La risposta è ovvia: Sono una grande particella zampillante di Coronavirus io stesso, e quindi da cosa mi proteggo? Da un mio simile? Il mio corpo sta già combattendo, lui non può farmi e trasmettermi niente che non abbia già. Sì, questo razionalmente, ma se qualcuno del mestiere me lo ripetesse la cosa mi aiuterebbe. Impossibile però. Il mio coinquilino è lì, silenzioso in grado di sentire qualsiasi cosa dico. Non ho privacy e di fronte a lui non ho certo il coraggio di rivolgere questa domanda a nessun infermiere medico od interlocutore telefonico.
Mi ritrovo però, in un gesto un po’ infantile a proteggermi con tutta la testa sotto le coperte in coincidenza con gli accessi di tosse più violenti, quando Mauro si toglie la maschera e magari si alza mettendosi seduto sul letto, ovviamente rivolto verso di me.
Così, amabilmente passa la mia seconda serata all’ospedale Sacco. In un certo senso fortunatamente la febbre mi regala quel torpore e quel sonno che mi consentono di addormentarmi senza problemi.
La Kaletra
La mia febbre sta iniziando a scendere e salire con pendenze vertiginose da luna park. Hanno iniziato a darmi tre pasticche di cosiddetti antivirali, medicine che non tardano a far sentire i loro effetti collaterali. E poi tachipirina, senza risparmio, appena la febbre supera i 38. Mi sveglio la mattina in un bagno di sudore a causa dell’antipiretico, mi cambio, mi rinfrescano letto e lenzuola e tempo un’ora la febbre torna a salire.
Gli antivirali devo prenderli la mattina a stomaco pieno e la sera dopo cena. Il fatto che mi siano stati subito somministrati da un lato mi rassicura, dall’altro mi pone delle domande cui non so rispondere. Ma c’era bisogno? Li danno a tutti? In fondo non potrei cavarmela come fosse una normale influenza? Chi sta come me spesso sta a casa, perché c’è bisogno che io sia ricoverato?
Sono domande senza risposta che piano piano scavano un piccolo solco nel mio stato d’animo. Mentre il mix di antivirali inizia gradualmente a farsi sentire.
Lo stomaco mi si chiude. Poi vengo avvolto da un senso di nausea che mi accompagna in ogni minuto. Mi sento spossato e disgustato. Perdo le forze nonostante, lo sento, il virus pare abbia trovato buoni anticorpi a combatterlo. Ho un po’ di tosse, non respiro benissimo, ma capisco anche io che la polmonite è lontana. Per ora non è un mio problema.
Mi ricordo che il giorno prima mi hanno fatto firmare un consenso informato prima di somministrarmi il farmaco.
Si chiama Kaletra, intuisco che è quello utilizzato anche per tenere sotto controllo il virus dell’HIV.
Capisco che siamo sul terreno della sperimentazione. La mattina quando viene il medico nel suo giro quotidiano mi chiede come sto. Io mi mostro piuttosto su di tono anche se non posso nascondere la febbre. E lui mi spiega quanto sia importante che la febbre diminuisca. Poi con un’espressione dubitativa che traspare nonostante veda solo i suoi occhi che escono dalla mascherina, mi ripete: “Speriamo che la situazione non peggiori”.
Mi rendo conto che i medici per primi non possono avere risposte. Quelle risposte che ormai nella nostra epoca siamo abituati abbiano sempre pronte in tasca, per positive o negative che siano.
Qui vedo che ogni paziente è allo stesso tempo un assistito ed un osservato speciale, è al contempo un malato ed un caso scientifico da studiare.
Lo sento ascoltando i dialoghi tra Mauro, ricoverato accanto a me, i medici e gli infermieri. Sta provando una cura, che però non porta i suoi frutti. Gli aumentano l’ossigeno. Gli promettono poi di provare con altri farmaci. Parlano di una cura antivirale pregressa che prende da tempo, e piano piano capisco. Il Coronavirus non è il suo unico problema. Ha qualcosa di pregresso che sta già combattendo e che può complicare il suo decorso. Nonostante questo è arrivato alla sua età in ottima forma.
È chiaro che nel nostro microcosmo di una stanza a due letti il fortunato sono io. Sono io “quello che sta bene”. Mi rendo anche conto che questo deve essere un pensiero costante e non di circostanza. Non sto rischiando nulla. Qualsiasi altra cosa abbia Mauro. Sono positivo al Coronavirus anche io e quindi non sto più rischiando di prendermelo. Quindi basta pensare a fantasmi inesistenti. I fantasmi non esistono. Ma il peso dell’isolamento sì.
Il silenzio in stanza è interrotto dai suoi colpi di tosse e dai miei dialoghi telefonici con mia madre, mia moglie e mia figlia.
Lei ha tre anni, non la vedo da troppi giorni. È a Roma, in isolamento, dentro casa, con mia moglie che nello stesso tempo lavora moltissimo in modalità smart working. Le video chiamate col papà sono un bisogno suo (spero!) ma sicuramente mio.
“Papà su alzati dal letto basta di fare il pigrone!!” Mi urla guardandomi dal cellulare. “Subito amore, ero solo un po’ stanco. Che hai fatto oggi?” “Sono molto triste perché mi si è rotta la bacchetta magica. Quando vieni a Roma me ne compri una grandissima??”. “Certo, te ne compro una enorme” “Cosaaa?? Perché parli con la voce strana? Lo sai che ho fatto la pipì tutta da sola senza pannolino? E pure la caccaaa!” “Br, ehm brava tesoro mio sei una campionessa”, “Papaaaaaa, se parli così non ti capisco!” “Ma c’è un signore vicino a me che non sta molto bene e non posso urlare”. “Parla parla, tranquillo, non mi dà fastidio” mi dice Mauro. Allora un po’ mi disinibisco. Le prometto mega bacchette magiche, premi per i bisogni espletati autonomamente, lotte trionfanti da condurre insieme contro streghe e mostri!”.
Il senso di nausea intanto sale, mi sento sempre più uno straccio, non per il virus credo, ma per la sua cura. Lo stomaco si chiude sempre di più e la febbre continua a salire e scendere. Ho il termometro sul comodino. Tre volte al giorno vengono gli infermieri a farcela misurare, ma ci incoraggiano a tenerla sotto controllo da soli ed a chiedere all’occorrenza una Tachipirina per farla scendere. Mi sento quindi in uno stato sempre più trascurato. Perennemente caldo di febbre o sudato, finisco ben presto quei pochi cambi che sono riuscito a farmi arrivare. Mi sento sporco e poco curato. Non temo il peggioramento della malattia anche se nessuno mi assicura che ciò non accada, temo che il tempo non passi più.
Ed in effetti il tempo inizia man mano a diventare, insieme alla febbre, il mio nemico principiale. Mi è stata recapitata una settimana enigmistica ed un libro di Isaac Singer. Un po’ pesante per il mio stato d’animo. Le riflessioni sul senso di dio, della vita e della morte, le contraddizioni esistenziali degli ebrei newyorkesi degli anni 40 che assistevano da lontano al massacro dei loro cari in Europa, non sono facilmente sostenibili in questa fase del mio ricovero. Non ho nient’altro se non il telefonino. Ma dopo i primi giorni di estrema disponibilità e buona disposizione sociale i messaggi che ricevo iniziano ad alimentare quel senso di nausea che mi sta avvolgendo. Nonostante sia enormemente grato a chiunque mi scriva per mostrarsi vicino, e per chiedere informazioni, sono francamente stanco di leggere, e ancor di più di rispondere sempre alle stesse domande. Sono stufo di scrivere whatsapp su di me e le mie condizioni di salute. Sto perdendo l’ironia e la voglia di scherzare e quindi mi irritano anche coloro che mi mandano una battuta virale tristissima e chiosano immancabilmente il loro messaggio con un “Ti faccio fare due risate, così ti tiro un po’ su”, “Ma io non ho voglia di fare due risate!” Vorrei rispondergli, “E cosa ne sai che ho bisogno di essere tirato su! E se anche avessi voglia, quello che mi hai mandato non mi fa ridere!”
Mi rendo conto io stesso che questa irritazione è sintomo del fatto che un problema forse ce l’ho. Ma ancora non è così dirompente. Mi annoio un po’, sonnecchio e penso al disagio seguito alla mia positività. Faccio questo mentre la Kaletra continua rendermi sempre più debole e inappetente.
Diamoci una mano
La mattina successiva, quando mi portano la colazione non posso neanche sentirne l’odore. Lo stomaco si è chiuso completamente e il senso di disgusto si è impossessato del mio corpo.
Come al solito sono zuppo di sudore a causa della Tachipirina. Arriva la signora delle pulizie, trova un piatto di plastica sporco sul mio comodino. “Questo lo butto io adesso, ma la prossima volta può farlo lei. Diamoci una mano!”. Sono mortificato. In effetti nella stanza c’è un grosso secchio dove vengono gettati carta, guanti e mascherine utilizzati e altri rifiuti. Lo uso anche io quando mi alzo, ma non sapevo dovessi mantenere io l’ordine.
“Intendiamoci – continua la signora – a me non dà fastidio buttare via le cose, ma in queste condizioni è meglio essere tutti più collaborativi”.
“Certo, ci mancherebbe, mi scusi ma non mi alzavo da un po’ e non avevo notato il piatto sul comodino”.
“Non c’è problema, io in genere sono amata da tutti i pazienti. Ci gioco, li abbraccio, stiamo bene insieme, ma in questa situazione non si può. Quello è il secchio, se non ti affatica quando puoi getta tutto lì”.
“Agli ordini, grazie”.
Capisco che non è facile neanche per loro. Si trovano a pulire e a muoversi, celati da tutte quelle protezioni, in un ambiente non molto ospitale. Con pazienti potenzialmente pericolosi per la loro salute. E loro, a differenza degli infermieri e degli altri operatori sanitari forse non hanno la necessaria esperienza e formazione, probabilmente neanche hanno scelto in quale reparto lavorare.
Diamoci una mano quindi, giusto. Chiedo più tardi ad una sua collega se può anche dare una passata di straccio in bagno. Lo condivido con Mauro e non sempre ho la sensazione che il lavandino ed il resto siano puliti dal precedente passaggio del mio coinquilino.
La tensione di chi lavora però è naturale. Ed io continuo a chiedermi con quale stato d’animo vengano tutti i giorni per trascorrere lunghi turni in reparto in quelle condizioni.
Gli occhi degli altri
Col passare dei giorni e delle ore le infermiere diventano figure sempre più familiari. Non vedo la parte bassa del loro volto protetto, non posso che indovinare la loro corporatura celata dal camice verde prima ancora che dalla loro divisa, intravvedo il colore dei loro capelli, coperti e raccolti. Ma vedo bene i loro occhi. Le riconosco da quelli. Le classifico così. Quella con gli occhi neri tristi. Quella con gli occhi chiari e sorridenti. Quella che sembra sempre felice e strizza gli occhi, quella con lo sguardo rassicurante. Poi ci sono gli uomini, di meno, forse più diversi fisicamente e più riconoscibili, anche loro però mi parlano più che altro con gli occhi.
Tutte, e dico tutte, quando entrano sorridono. Tutte sembra siano portate da una consapevolezza. Entrare in quelle stanze vuol dire provare a portare il sole.
Il sole, appunto. Un desaparecido. La finestra della stanza non dà sull’esterno, ma su un corridoio interno da dove eventuali visitatori possono venire a salutare i pazienti, protetti da un vetro che non si apre. La luce esterna penetra solo di riflesso da quel corridoio, le cui finestre danno comunque su un edificio molto vicino e più alto.
Insomma vedere il cielo è impossibile e lo è altrettanto capire che tempo faccia fuori.
Il “fuori” per noi chiusi in quelle stanze sono appunto le infermiere e le operatrici sanitarie che entrano.
Si mettono a fare i lavori più spiacevoli ridendo e scherzando. Invitano Mauro a muoversi. Lavano ciò che ha sporcato e gli danno sempre motivo di sorridere, o almeno ci provano.
Parlano degli effetti benefici che hanno le tute impermeabili sulla loro pelle. “Sai quest’estate che pelle liscia e vellutata! Sono camici miracolosi, altro che Spa!”. “Macché pelle liscia, io mi sento Chewbecka, il personaggio tutto peloso di Star Wars! Tutte le donne saranno così tra un mese”. In effetti l’idea di Chewbecka fa molto ridere anche me. E non c’è bisogno di pensare alle signore, basta guardarmi in faccia con la barba di 5 giorni e i capelli che hanno completamente preso il controllo della mia testa, instaurando un regime anarchico senza legge che non sia quella del più forte.
Ridono, e portano l’energia di un mondo che intorno a noi sembra averla persa.
Un giorno parlo con Stefania, una di loro. Le chiedo come fa. Le se ha paura in una normale giornata di lavoro ad avere a che fare continuamente con gente quasi “intoccabile”, sempre a rischio di infettarsi. “Chi inizia a lavorare in un reparto di malattie infettive poi non vuole più fare altro” mi risponde, “Ti dà troppo ed è troppo interessante”. La situazione attuale però esce dalla normalità. La pressione del numero enorme di persone ricoverate per il virus arriva tutta sulle loro spalle, e la vita è diventata impossibile anche e soprattutto per chi lavora in ospedale.
“Ora è diverso però – continua – È un’emergenza senza fine, una cosa che non abbiamo mai visto. Per noi è dura, fisicamente, certo, ma anche psicologicamente. Quando torniamo a casa ci portiamo dentro i vostri occhi, i vostri sguardi. Non credere che sia facile poi tornare alla propria vita privata. In un certo senso rimaniamo sempre qui con voi”.
Stefania ha fretta di andarsene, non si può rimanere a fare conversazione nella stanza di un malato. Allunga una mano e col suo doppio guanto di gomma mi accarezza il braccio.
Se non mi sono mai sentito veramente solo in isolamento è stato grazie a persone come lei.
Un giorno Mauro in cerca di conforto, o di spaventose conferme ferma un’altra infermiera che lo aveva appena assistito in una cura. “Signora mi dica sta morendo tanta gente?”. Gli occhi di Angela cambiano e diventano lucidi: “A questo non posso rispondere, mi dispiace”. “Coraggio!” aggiunge, si toglie i guanti e lascia la stanza.
Mauro nel frattempo non riesce a migliorare, la cura in parte funzione ma le difficoltà di ossigenazione rimangono. Un giorno entra un medico e gli annuncia che verrà trasferito in un'altra stanza, dove potrà mettere un casco d’ossigeno che lo aiuterà a respirare meglio. Lui sembra pessimista, ma ha una buona forza fisica ed i medici sono nonostante tutto speranzosi. Chiede solo di essere ricoverato accanto al suo compagno, nel frattempo risultato positivo ed ospedalizzato anche lui.
Lo saluto un pomeriggio mentre lo trasportano via. Diceva che i rimproveri e i saluti di mia figlia che urlava dall’altra parte del telefono erano un piacere ed un’iniezione di vita. Per me era sicuramente così. Non so se gli siano poi mancati veramente…
Chiedo ad un infermiere venuto a sistemare la stanza se avrò un altro ospite e lì capisco la dimensione nella quale sono immerso e che non posso vedere.
“Certo che arriva qualcuno – mi spiega – sono appena arrivate due ambulanze ma siamo riusciti a sistemare i pazienti in un’altra stanza appena liberata. Questo è il quinto edificio riconvertito a reparto per malati di coronavirus. In origine qui c’era altro. Siete tanti e ne continuano ad arrivare. Fra qualche ora vedremo chi entra qui dentro”.
In realtà passa quasi un giorno, o meglio una sera ed una mattinata intere. Le uso per parlare più liberamente con mia moglie e la mia famiglia. Per essere più generoso di parole con mia madre che mi segue preoccupata da lontano. Per promettere un enorme Hula Hop a mia figlia che è convinta, a tre anni, alta un metro, di poterlo far volteggiare benissimo.
Il telefono per il resto lo guardo poco. Continuano ad arrivare messaggi di mera vicinanza ed altri in cui si chiedono notizie che, francamente, non ho grande voglia di dare. C’è anche chi si sente in dovere di informarmi sul suo stato di salute. E non parlo di un collega positivo al virus, ma di chi mi scrive: “Ho un po’ di raffreddore anche io, ma rimango a casa, ti saluto”. Chissà cosa gli passa per la testa!
I fantasmi dentro
La chiusura in ospedale però inizia a farsi sentire. Calcolo che è quasi una settimana che sono ricoverato. La situazione clinica sta decisamente migliorando. Mi sento di avere un buon respiro e la febbre sta scendendo. Anzi, è scesa sensibilmente. Non ho più picchi oltre il 39, viaggio tra il 37 e il 38 e mi curo con la tachipirina.
Sono molto debole però, perché non riesco a mangiare. La cura a base di Kaletra ha fatto il suo corso. Questa insieme al virus ha cambiato il mio senso del gusto, ha chiuso il mio stomaco definitivamente, mi dà un senso di spossatezza e nausea che prostrano. I medici hanno deciso di somministrarmi un ciclo di 5 giorni, dieci dosi in tutto. Conto le ultime e psicologicamente mi sembra di faticare sempre più ad ingerirle. Quasi fossero pesanti mattoncini.
Quando entra il signor Gianni in stanza il mio stato clinico è certamente confortante. Mi sento debole e disgustato, ma la febbre non è alta ed i medici seppur dubbiosi e di poche parole sembrano fiduciosi. Hanno decine di casi ben più gravi di cui preoccuparsi.
Gianni ha 87 anni sembra mal portati. Entra in barella. Non è presentissimo a sé stesso. Provo a salutarlo ma non risponde. Lo adagiano sul letto. E da quel momento inizio a sentire un rantolio, continuo, che non lo abbandonerà mai. Gli parlano a voce alta nell’orecchio, lui sembra capire, ma parla in modo poco comprensibile e confuso. Steso sul letto è immobile, capo rivolto a sinistra, e rantola di un respiro affannoso che non fa presagire nulla di buono.
Sono di nuovo in compagnia, si fa per dire. Ma la situazione inizia a pesarmi sempre di più.
Sarà lo stato fisico in cui mi trovo, ma qualsiasi cosa penso di fare mi provoca un senso di ulteriore rigetto.
Prendo in mano il telefonino, do un’occhiata ai messaggi di chi mi chiede notizie. Riesco a rispondere ad un paio di loro ma poi mi viene il disgusto di me stesso, dei termini utilizzati e dell’attività in sé.
Allora apro internet, provo a distrarmi. Prima notizia letta: “A 46 anni muore di coronavirus, La storia tragica di un giovane uomo”. Esattamente mio coetaneo. Mi deprimo ulteriormente. Per lui, per quello che mi accade intorno, per il fatto che nonostante tutto capisco di non riuscire comprendere a fondo la dimensione di ciò che stiamo vivendo. Leggo un po’ il libro di Singer, ma mi fermo quando parla dei morti che ci guardano nella nostra quotidianità e di tutti noi appesi a un filo in attesa di andare nell’aldilà.
Poso il cellulare e guardo nel vuoto. Il rantolio di Gianni accompagna il silenzio. Col tempo capisco che è un suo modo di respirare in parte anche pregresso all’infezione di Coronavirus. Non è attaccato all’ossigeno, non credo abbia la polmonite, ma certamente non sta bene.
Inizio a capire che con l’andare dei giorni sono sempre più bloccato psicologicamente. Quella sensazione di disgusto per qualsiasi cosa pensi di fare è una spia che indica che sono in riserva. Riserva di buon umore, di carburante da bruciare per rinfrancare lo spirito, riserva di pazienza. Non ho mai avuto la sensazione, dall’inizio del ricovero, di vivere un’esperienza dura e particolarmente provante. Ho sempre pensato che mi stesse sostanzialmente andando bene. La mia unica ossessione era di non ricevere da Roma la notizia che mia moglie si fosse ammalata. Per il resto ho sempre avuto la consapevolezza di stare abbastanza in forze, specialmente vedendo lo stato fisico di chi mi era attorno.
Ma evidentemente questi giorni mi stanno mettendo alla prova più di quanto creda. Inizio a provare un senso chiaro di claustrofobia. Continuo a chiedermi il perché non possa, nelle mie condizioni, tornare a casa in attesa che passi.
I medici una mattina sono molto chiari: “Noi non la dimettiamo finché lei ha la febbre. Quello per noi è importante. Quando le passerà la febbre andrà a casa”. Ora so chi è il mio nemico, o amico: il termometro!
E la febbre scende ulteriormente. Quando prendo la tachipirina passo diverse ore sotto il 37°. Ma non basta. Non deve essere necessario l’antipiretico, devo non avere la febbre, punto.
Le giornate diventano un’attesa ossessiva della misurazione della temperatura. Nel frattempo ho smesso la terapia antivirale. Non ne vedo ancora i benefici negli effetti collaterali, anzi inizio a temere che l’interruzione di quei farmaci potrebbe farmi peggiorare. Non ho paura di ammalarmi gravemente. Ho paura di non uscire presto dall’ospedale.
“A lei devo dirlo…”
Una sera mi addormento con pochissime linee di febbre. Non prendo nessuna tachipirina. Mi risveglio con 36,5°. Ogni ora guardo il termometro speranzoso. Alle 10.30 il medico mi ripete: “Fino a ieri sera aveva la febbre, non la posso fare uscire, speriamo si mantenga sotto il 37 tutto il giorno”. E così inizia l’attesa, ossessiva, che il tempo passi e che la febbre non torni. Alle 12.30 ho 37.3°. E cado nello sconforto. Uno sconforto sproporzionato, probabilmente ingiustificabile. Mi sento un leone in gabbia. Anzi, un leone no, tutt’altro! Mi sento solo in gabbia. E sono di pessimo umore.
È allora che entra una gentile operatrice sanitaria. Sistema alcune cose intorno a Gianni. Poi mi guarda e mi dice: “Lei lavora in tv al telegiornale vero?”, “Sì signora”, “Beh lo sa chi è ricoverato nella stanza accanto?”. “No, mi dica”. “Mia figlia! Sì, mia figlia che ha 40 anni, fa l’infermiera in ortopedia. L’hanno fatta lavorare senza protezione. Ha accompagnato i pazienti a fare le lastre, a fare le terapie, al letto. Ed ora è positiva anche lei”. “Mi dispiace signora, purtroppo la mancanza di mezzi di protezione è un problema enorme”. “Eh, sì, io glielo dico perché lei fa il giornalista”.
Nel pomeriggio entra un altro infermiere. Cerca di tirarmi su. Anche lui è gentilissimo, fa il suo lavoro con energia, senza paura, e cercando di instaurare un rapporto umano scavalcando mascherine e protezioni. Ma a un certo punto mi dice: “Tu lavori al tg di Sky, io ti vedo. Devi sapere che qui la situazione è difficilissima. Ci sono edifici pieni di malati, continuano ad arrivare ambulanze. Non so come se ne esce”.
Io sto sprofondando nel mio malumore. Mi sento costretto in ospedale. Ed ora mi sento pure in qualche modo responsabile di veicolare all’esterno quelle richieste d’aiuto, quelle denunce fatte da gente che lavora per gli altri. D’altra parte penso, ma io che c’entro, cosa posso fare? Perché me le dicono tutte a me queste cose? Domande stupide, risposte ovvie. Frutto dello spirito che inizia a cedere.
Dalla stanza accanto invece, quella dov’è ricoverata l’infermiera di ortopedia, sento una voce ancora tonica e squillante. È lei che racconta al telefono la sua avventura. Sento che entra la madre che le dà conforto. Dall’altra parte, da oltre il muro, mi sembra quasi si stia celebrando una festa. Non è così, ma sono voci di gente in quel momento sicuramente più forte di me. C’è una signora che deve essere anziana. Non l’ho mai vista ovviamente, ho solo sentito vagamente la sua voce, o meglio la voce delle sue interlocutrici, infermiere ed operatrici che la tirano su e che cantano. Ha un nome insolito. Si chiama Paloma, e la canzone di Battiato riecheggia nei corridoi del reparto in maniera continua. Infermieri ed operatori che entrano da Paloma, la curano, escono e attaccano “Cuccuruccucuuu Palomaaaa…”.
Neanche Paloma però mi tira più su di morale, sarà il rantolio del mio compagno di stanza, sarà che ormai ho solo un’ossessione, uscire da dove sono, ma le ore si fanno sempre più lunghe. La febbre è quasi andata via. Ogni volta che infilo il termometro lo vivo come una prova di coraggio. Vediamo se mi delude o no, penso. E mi delude sempre meno spesso. La temperatura sta realmente scendendo, insieme paradossalmente al mio coraggio, alla mia pazienza e alla mia serenità.
Le ore del pomeriggio sono lunghe. Parlo al telefono con mia moglie che mi invita ad essere paziente ed ottimista. Lei e mia figlia stanno bene, tutto sta passando, io sto guarendo. Dovrò stare qualche altro giorno all’ospedale? Pazienza. Posso leggere, e pensare sempre che in fondo sto bene. Non fa una piega, ha ragione. Ma il mio animo non è molto orientato a seguire il sentiero della razionalità.
Intanto Gianni ha smesso di rantolare, mi preoccupo, c’è un silenzio inquietante. La sua posizione nel letto non è cambiata. Spero respiri ancora. Controllo. Ed in effetti respira, dorme tranquillo.
Inizia a farsi sera. L’ora in cui fisiologicamente la febbre sale. Metto il termometro con terrore. Ma si ferma a 36.9° e non ho imbrogliato! Mi chiama mia madre. Reclusa in casa come ultra 75enne ma preoccupata. Prima a causa del virus, ora del mio stato d’animo. Cerca di incoraggiarmi anche lei. Mi fa mille domande per distrarmi o per tirarmi su, ma ho poca voglia di parlare. Qualsiasi argomento mi sembra inutile. Il virus, la febbre, la malattia, la degenza in ospedale, sono temi che mi risultano insopportabili. Il resto non riesce a coinvolgermi. Non devo essere facile da trattare! È probabilmente l’effetto dell’isolamento. Il frutto di giorni passati senza poter uscire da una stanza. O forse anche le conseguenze che su di me hanno avuto la fatica e la sofferenza che in piccola parte ho visto ed in gran parte ho percepito ed intuito intorno al mio letto alla mia stanza, lungo reparto di degenza.
La febbre non torna e mi addormento deciso: domani esco, convinco i medici, in fondo ho sfebbrato.
La mattina dopo mi sveglio con 36.4 e mia figlia che mi grida “Auguri papaaaa, 0ggi è la tua festa. Ti faccio una torta di cioccolato enorme e poi quando vengo a Milano ce la mangiamo insieme!!” Deduco che è la festa del papà e il risveglio non potrebbe essere più dolce. Aspetto, ancora una volta aspetto, con trepidazione l’arrivo dei medici a metà mattinata. Mi sento bene e combattivo. Mi sento però ancora nauseato, stanco e debole psicologicamente.
Arriva la coppia di giovani medici che con cortesia hanno compiuto il giro di visite in tutti questi giorni.
“Non ho più febbre da ieri mattina!” Annuncio trionfante. “Molto bene - mi rispondono - se oggi non le torna, domani la mandiamo a casa. Domani pomeriggio-sera, non prima”. “Ma come!” Mi cade il mondo addosso. Mi sento tradito. “I nostri protocolli prevedono un periodo di 72 ore senza febbre prima di poter dimettere un paziente. E domani sera ad essere precisi neanche sarebbero passate esattamente 72 ore, ma visto che sta bene, faremo un’eccezione. Sempre ovviamente che la febbre non torni”. “Vi prego mandatemi ora, mi sento bene, e psicologicamente sono un po’ provato”. “Signor Coen, la capiamo bene, non è l’unico a risentirne psicologicamente. Anche noi medici abbiamo problemi simili. Proprio per questo, se vuole disponiamo anche di un sostegno a disposizione. Questo edificio dove lei è ricoverato originariamente è un Ospice, uno dei quei luoghi dove si ricoverano casi gravi e malati terminali. È dotato quindi anche di un servizio di supporto con uno psicologo. Vuole che facciamo richiesta per lei?”. “No – rispondo – la ringrazio moltissimo e mi scusi. Un giorno posso anche resistere. Però domani a casa mi ci mandate???”. “Le ripeto, se non torna la febbre sicuramente sì”.
Ed ora che faccio? Sono le 10 del mattino, devono passare altre 24 ore prima di rivedere i medici che decidono se mandarmi a casa. E come faccio in queste 24 ore a non farmi tornare la febbre? Sono sotto terra. Di fronte a me vedo un muro enorme che si chiama tempo. Razionalizzare non mi aiuta. Pensare ad altro mi sembra impossibile. E neanche posso tediare mia moglie che deve gestire una situazione già difficile. E quindi, la tedio lo stesso. La chiamo. Le spiego che non so come far passare la giornata. Lei mi raccomanda di tenermi su di morale, non c’è cosa che influisca di più sul recupero fisico o le ricadute che lo stato d’animo. Ecco ci mancava anche questo pensiero! Per come mi sento psicologicamente già dovrei avere 40 di febbre! Lei prende in mano la situazione. Si fa dare da me il numero del reparto. Tempo 10 minuti mi portano delle gocce di Lexotan che mi stendono e mi regalano un po’ di sonno.
Nel pomeriggio mi riprendo un po’. Mi siedo a leggere su una sedia, da lì, attraverso la doppia porta vedo uno spicchio di corridoio del reparto. Passa un’infermiera che mi saluta da fuori. È scoperta, ha i capelli biondi e un bel sorriso, e mi fa il gesto più bello che potesse farmi. Fa il segno con la mano di uno che se ne va. “Chi io?” le chiedo a gesti. Annuisce sorridente e aggiunge col dito: “Domani”.
Quando passano gli infermieri la sera mi sento rinfrancato dalla giornata che è passata e dal fatto che obiettivamente mi rendo conto che la febbre mi ha veramente abbandonato. Non mangio quasi nulla. Lo stomaco non dà udienza, ma sorrido quando sento il signor Gianni, in una delle sue poche esternazioni che esclama con l’infermiere “Ce vorrebbe n’bicchier de vino!”. “Dice bene signor Giovanni, un po’ di pazienza e tornerà a bere anche quello”.
Ubriaco d’aria
La mattina del 20 marzo, mi sveglio un po’ timoroso ma sicuro del mio stato fisico. Non ho febbre e la saturazione del mio sangue va bene. Arriva un’infermiera e mi fa un tampone, per vedere a che punto è l’infezione da Coronavirus dopo 10 giorni di ricovero. Alle 10,30 puntuali entrano i medici. Mi guardano e mi dicono: “La mandiamo a casa. Questo pomeriggio, ma la mandiamo a casa”. “Grazie – sorrido – che bello. Mi hanno fatto anche un tampone”. “L’esito – mi spiegano – in realtà ci interessa poco. Noi qui guardiamo ai sintomi clinici, quando quelli passano il tampone in breve tempo si negativizza. In ogni caso deve rimanere a casa da solo in quarantena, il tampone alla fine verrà negativo, vedrà”.
Mi dicono di aspettare le 17, prima non c’è un’ambulanza disponibile a portarmi via. Troppo lavoro. Troppo giri tra ricoveri e dimissioni. Improvvisamente le 5 del pomeriggio mi sembrano un orizzonte temporale vicino e ragionevole. Quell’enorme muro immaginario costituito dal tempo che non passava si è sgretolato alla notizia della fine del mio ricovero. E come spesso mi capita, ripensando al dramma dei due giorni precedenti mi sento sciocco e debole”.
Verso le 14 arriva il medico capo reparto. Mi avevano annunciato che voleva parlarmi prima della dimissione. Immagino voglia darmi le istruzioni del caso. “Buongiorno dott. Coen”. “Buongiorno”. “Lei lavora in tv al tg di Sky vero?”. “Sì, vero”. “Senta sono venuto per chiedervi di non invitare più quella dottoressa tal dei tali che secondo me fa dei danni enormi e disinforma i telespettatori”. “Ok, ultimamente non ho potuto seguire molto, ma riferirò” rispondo. “Cerchi di capire dott. Coen ma certa gente minimizzando la portata del virus e quanto sta avvenendo fa del male a tutti”. “Lo capisco perfettamente. Trasmetterò le sue parole ai miei colleghi”. “Ma guardi in realtà non so se voi nel vostro tg l’abbiate mai invitata. Sicuramente lo hanno fatto altri. Ma è meglio non farlo. E già che ci siamo non invitate neanche quell’altro intellettuale che non capisce niente e parla di tutto”. “Ci mancherebbe dottore! Io invece volevo ringraziarvi per l’aiuto, la disponibilità, la dedizione oltre l’umano di tutti i vostri operatori”. “Si figuri. Io sono infettivologo ma in genere mi occupo dell’Ospice. Siamo tutti un po’ improvvisati e ci stiamo riorganizzando per far fronte all’emergenza. Arrivederci e buona fortuna”.
L’ortomercato
Alle 17 mi chiamano, l’ambulanza è pronta. Mi vesto con il maglione pesante e il giaccone invernale con cui ero entrato. Mi mettono il camice, i guanti, la maschera. Sono ancora un potenziale pericolo.
Provo a salutare invano il signor Gianni. Esco in corridoio, ci sono le finestre aperte. E vengo assalito da un’ondata di luce, di aria fresca, dalla vista del cielo ancora illuminato dal sole. Mi rendo conto di non respirare aria vera e di non vedere il cielo da dieci giorni. Quasi un’ubriacatura.
Entro nella parte posteriore dell’ambulanza. Mi indicano un sedile e mi dicono di sedermi e non toccare nulla. Partiamo, fuori il clima è mite. Nel frattempo è arrivata la primavera e io sono vestito come in una fredda giornata d’inverno. In più il camice e la mascherina non fanno passare l’aria e mi fanno sudare. Ora capisco perché parlavano di saune e Spa le infermiere che entravano in stanza tutte bardate. Dopo qualche minuto di viaggio mi sembra di sciogliermi sotto la lana e il cappotto di piume avvolti dal camice impermeabile. Apro uno spiraglio di finestrino, così scruto pure una Milano sempre più vuota e spettrale. Intravvedo una fila ordinata all’esterno di un supermercato, ed un viale sul naviglio completamente vuoto. L’aria che filtra un po’ mi aiuta. Ma quando arriviamo sotto casa e l’operatore mi apre la porta, vede lo spiraglio di finestrino aperto. “Chi ha aperto questo finestrino??”, “Sono stato io, non potevo?” “Eh no che non poteva! Le avevo detto di non toccare nulla! Ma si rende conto? Ma cosa crede lei, di venire dall’Ortomercato!!”, “Mi scusi tanto morivo di caldo, ho i guanti, non credevo non si potesse, ma mi scusi ancora. Capisco bene”. “Macchè la scuso, lei viene da un reparto di malattie infettive! Quei guanti sono anch’essi infetti! Roba da matti! Ora per colpa sua dobbiamo sanificare tutto il mezzo e spendere 150 euro”. A quel punto decisd di smettere di scusarmi e mi allontano, voglio gustarmi il ritorno a casa, che seppur vuota, è sempre casa!
Il castello
Ci si riabitua subito ai propri spazi, alla familiarità degli oggetti quotidiani. Dentro casa è tutto come ho lasciato la sera di dieci giorni prima, uscendo di corsa febbricitante per fare un tampone e tornare subito al caldo.
Il disordine regna. Ed io mi impongo, nonostante la debolezza, la nausea, lo sfasamento, di mettermi un minimo al lavoro. Prima per ripulire me stesso. Poi l’ambiente che mi circonda.
Non ho molte forze, e non ho paura che mi torni la febbre ma capisco che devo procedere per gradi per riprendere il pieno controllo di me stesso.
Del resto me lo hanno detto. Per ora devo rimanere isolato e in quarantena. Per quanto? Per due settimane immagino.
Aspetto la mattina seguente per chiamare l’ospedale. Mi hanno lasciato un numero. Lì posso informarmi sull’esito del tampone effettuato prima delle dimissioni. Alle 12 qualcuno mi risponde. “Signor Coen, l’esito dell’analisi fatta ieri risulta negativo”. Ottimo penso. Sono pure mezzo guarito! Nel pomeriggio mi richiama il medico che mi ha dimesso e mi conferma: “Ho una buona notizia. Il suo tampone è negativo! Ora ne serve un altro per confermare la negatività. Abbiamo comunicato il suo nome all’Ats (la Asl), e dovrebbero chiamarla per farglielo loro. Ma l’avviso….”. “Mi dica dottore”. “Non la chiameranno mai! Sono troppo oberati”. “Ah, molto bene, quindi io rimango in quarantena”. “Sì, ed è un peccato perché con un secondo tampone potrebbe uscire dall’isolamento”. “E cosa posso fare?”. “Aspetti che la chiamino”.
Io ancora non sto benissimo. I sapori in bocca devo ancora ritrovarli, come l’appetito. Non ho fretta di andare chissà dove ma certamente mi trovo in uno stallo.
Passano i giorni e riacquisto le forze ed il gusto per il cibo. Squilla il telefono, da un numero che non conosco. “Parlo col signor Renato Coen?”, “Si chi è?” “Buongiorno è la polizia. Ci hanno segnalato il suo nominativo”. “Mi dica, che è successo?”. “Lei è stato appena dimesso dall’Ospedale Sacco”. “Sì lo so, grazie”. “Bene, la chiamo per dirle che lei deve rispettare l’isolamento nella sua residenza. Se contravviene alla disposizione e la troviamo fuori di casa dobbiamo applicare una sanzione che prevede l’arresto fino a tre giorni”. “Molto bene, la ringrazio!” …E ben tornato a casa anche a lei, mi verrebbe da aggiungere! Invece continuo e spiego che in realtà io risulto già negativo ad un primo tampone e sono in attesa, vana, che me ne venga fatto un altro per poter essere libero. “Molto bene, io lo segno” Mi risponde l’agente. “E se lo segni…”.
Passano altri due giorni nei quali riapprezzo il sole forte che batte e la libertà di muovermi a casa mia. Mi manca mia figlia, mi manca mia moglie e vorrei essere con loro, l’isolamento ulteriore dopo l’ospedale senza poterle riabbracciare mi pesa. Loro sono a Roma. Distante anni luce in questo momento. Ma in fondo sto attraversando un periodo di reclusione casalinga come la maggior parte dei miei connazionali. Se esco però mi arrestano. Sono amministrativamente ancora un appestato!
Dopo due giorni mi chiama l’Ats. Finalmente! “È il signor Renato Coen, abitante in via ..., nato a, nato il, ecc ecc?”. “Si, buongiorno sono io”. “Signor Coen la chiamo perché a noi è stato comunicato che lei è stato sottoposto ad un tampone risultato positivo a Coronavirus lo scorso 10 marzo”. “Sì, esattamente, e a seguito del quale sono stato ricoverato”. “Ah, è stato ricoverato?!”. “Eh sì”. “Allora aspetti che lo segno”. “Sì, lo segni. Però poi sono stato dimesso dall’ospedale Sacco e mi hanno fatto un nuovo tampone risultato negativo”. “Ah, molto bene, segno anche questo. Ma lei lo sa che di tamponi negativi ne servono due?”. “Eh, sì lo so. Infatti ero in attesa di una vostra telefonata per avere un secondo tampone. So che siete oberatissimi di lavoro con altre urgenze, però i medici dell’ospedale mi hanno detto di aspettare di essere contattato da voi”. “Da noi? E perché? Non potevano farglielo al Sacco un secondo tampone già che c’erano?”. “Eh, mi permetta ma questo io non lo so…”. “Era meglio lo facessero loro. Noi qui dobbiamo dare la priorità a malati oncologici che con un tampone negativo possono proseguire le loro cure a casa, dobbiamo testare altri casi più gravi e non so se possiamo farle un tampone”. “Capisco benissimo”, rispondo. E capisco veramente di non essere certo una priorità in un caos del genere. In un’ondata tale di urgenze e di richieste d’aiuto, le autorità sanitarie stanno cercando di fare il massimo. Una conferma di un secondo tampone negativo per una persona già guarita, a casa, e in sicurezza, non può essere né un’urgenza, nè tantomeno una priorità per la regione che sta affrontando la più grande emergenza sanitaria degli ultimi 80 anni. Nonostante questo, mi hanno chiamato, e si mostrano anche generosi di consigli e di tempo da dedicarmi. Anche se i paradossi della confusione che viviamo continuano ad emergere. “In ogni caso - continua infatti l’impiegato dell’Ats - anche con un secondo tampone negativo lei sempre in quarantena a casa deve stare”. “Scusi e perché? Il medico dell’ospedale mi ha detto che con un doppio negativo l’obbligo di isolamento finisce”. “Ah, se lo dice lui non discuto. In fondo in ospedale ne sanno di più di noi”. Provo il tutto e per tutto: “Mi scusi ma c’è un numero che posso chiamare, a cui posso rivolgermi per sbloccare la situazione?”. “Eehh, no. Non c’è. Pensi che io la chiamo da casa dal mio cellulare privato. Ormai si lavora così. Io comunque segno tutto”. “Grazie segni tutto anche lei”. “Sì, segno tutto e la richiamo”.
E così rimango chiuso nel mio castello, in attesa di fronte al più grande castello della burocrazia che si è un po’ incartata insieme alla mia quarantena. Aspetto di tornare ad essere sano amministrativamente. Aspetto di riabbracciare la mia famiglia. Intanto, segno tutto anche io….