Don Pino Puglisi, il prete che sfidò Cosa Nostra ucciso 25 anni fa

Cronaca

Antonio Marafioti

Don Pino Puglisi fu ucciso dalla mafia il 15 settembre 1993 (archivio Fotogramma)
Fotogramma_Don_Pino_Puglisi

Il parroco del quartiere Brancaccio a Palermo fu assassinato dal gruppo di fuoco dei fratelli Graviano il 15 settembre del 1993. In tre anni aveva speso tutte le sue energie per ridare dignità agli “ultimi” e combattere la mafia

Fece in tempo ad accennare un lieve sorriso e a dire ai suoi assasini "Me lo aspettavo" don Pino Puglisi, ucciso il 15 settembre del 1993 poco dopo le 20 del giorno del suo 56esimo compleanno, dal gruppo di fuoco dei fratelli Graviano. Quel sorriso, sopravvissuto come un incubo nella memoria del pentito Salvatore Grigoli, è riaffiorato tutte le volte che il boss, diventato collaboratore di giustizia, ha raccontato come uccise il parroco di Brancaccio. 

La miseria di Brancaccio

Nonostante fosse cosciente di essere nel mirino della mafia, don Pino sorrideva, perché sapeva di aver vinto nella guerra in atto fra la dignità umana e l'oscurantismo criminale. Terreno di lotta era il quartiere di Brancaccio a sud-est di Palermo. Fino all'arrivo di Puglisi, questa zona rappresentava una terra di nessuno, dominata come un feudo dai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, diventati capi indiscussi del mandamento di Brancaccio-Ciaculli dopo l'arresto, nel 1990 del superboss Giuseppe Lucchese. Per farsi un'idea di cosa fosse Brancaccio nell'era dei Graviano basta leggere l'incartamento del processo ai mandanti dell'omicidio Puglisi in cui è contenuta una sintesi fatta dai magistrati inquirenti delle decine di testimonianze delle persone che affiancarono il prete nella sua opera. Brancaccio - si legge nelle carte della sentenza - era il “tipico quartiere degradato della periferia, composto da un agglomerato urbano disomogeneo, lasciato in totale stato di abbandono: non esistevano, infatti, i servizi essenziali, come le fognature, ed i liquami si riversavano per strada”. Brancaccio era infestata dai topi, mancava una scuola media. A Brancaccio non vi erano spazi verdi per i ragazzi che giocavano in mezzo alle immondizie, né altri servizi sociali. Come se non bastasse gli inquirenti rilevarono nel quartiere anche un grave arretramento culturale e “un alto potenziale criminogeno: la gente viveva e operava - riportano le carte - sotto una cappa di dominio e sopraffazione, subiva impotente un clima di intimidazione, correva rischi concreti se si fosse adoperata solo per migliorare le condizioni minime di sopravvivenza civile degli abitanti”.

L'opera di 3P a Brancaccio

In questo quadro desolante arrivò e iniziò a operare, nel 1990, padre Pino Puglisi chiamato affettuosamente 3P. Nato proprio in quel quartiere da una famiglia modesta, Puglisi entrò in seminario nel 1953 all'età di 16 anni per poi ottenere i voti nel 1960. Da sacerdote girò la Sicilia inserendosi e operando sempre in contesti di bisogno umano e sociale. A Brancaccio, il parroco fu assegnato alla parrocchia di San Gaetano, il suo quartier generale, la sua “trincea” come si disse più volte, da cui iniziò combattere la battaglia per la dignità del prossimo. Padre Gregorio Porcaro, vice di Puglisi, ricorderà che 3P lavorava sempre “fuori dall’ombra del campanile”. La sua scrivania era il quartiere, il suo obiettivo era quello del riscatto delle fasce più deboli e soggette all'enorme potere mafioso. Puglisi, ricordano i magistrati, “raccoglieva i giovani dalla strada tossicodipendenti e sbandati, utilizzando per il loro recupero e lo svolgimento delle attività sociali luoghi che un tempo erano sotto il dominio di Cosa Nostra che li destinava all’esercizio di attività criminali”. Per ampliare la sua opera diede vita al centro “Padre Nostro”, creato in una struttura fatiscente di Brancaccio comprata a un prezzo molto più elevato del suo valore e, successivamente, rinnovata con grandi sacrifici e un mutuo interamente pagato col suo stipendio da insegnante di religione. Non era una sfida aperta alla mafia, Puglisi non condivideva nemmeno la definizione di “prete antimafia”. Era un uomo votato alla normalità da raggiungere attraverso la legalità e il convivere civile. “La legalità per lui – si legge negli incartamenti – era potere operare da uomo libero […] senza servire il politico o l’amministratore di turno”.

Il potere dei Graviano

L'opera di Don Pino era quella di un prete di frontiera. L'immagine non è solo narrativa. Brancaccio era realmente un quartiere diviso dal resto di Palermo da una linea ferroviaria, che lo rendeva di fatto un'enclave a sé stante, irraggiungibile da ogni specie di progresso. Era un'isola nell'isola in cui i gattopardi avevano i volti di Giuseppe e Filippo Graviano. In una dichiarazione resa ai magistrati e riportata nell'incartamento del processo contro i mandanti dell'omicidio Puglisi, il pentito Emanuele Di Filippo (ex membro del gruppo di fuoco dei Graviano) sostenne che "nel quartiere di Brancaccio comandavano i fratelli Graviano: qualsiasi cosa succedesse - estorsioni, rapine, omicidi - loro ne erano a conoscenza, se non addirittura ne erano gli autori o i mandanti”. Puglisi aveva rappresentato l'immagine di una parte del clero siciliano non più timido, o addirittura connivente, con la criminalità e il suo potere economico e militare. Negli ultimi mesi della sua vita fu perseguitato con minacce, fisiche e verbali, e intimidazioni che non lasciavano adito a dubbi sul fatto che Cosa Nostra lo volesse eliminare. I Graviano ordinarono l'incendio di uno dei camion della ditta edile impegnata nella restaurazione della chiesa di San Gaetano. Poi si passò al rogo ai danni delle abitazioni di tre esponenti del Comitato condominiale attivo con Puglisi nella sua opera di riqualificazione del quartiere. Il religioso sapeva di essere vicino alla fine. Lo dimostrano le testimonianze degli amici che lo descrissero come un uomo più chiuso e tormentato. Una suora sostenne che una delle ultime frasi che le rivolse il prete fu: “Il massimo che possono fare è ammazzarmi. E allora? Io non posso tacere”.

L'omicidio del 15 settembre 1993

E Puglisi non tacque mai. Denunciò sempre tutto. Lo fece non davanti ai magistrati, ma durante le omelie della domenica. Continuò a ripetere ai suoi fedeli di non avere paura, di non abbassare mai la testa davanti alle minacce. Al contempo tentava di proteggere i suoi fedeli esortandoli a non affrontare a viso aperto gli uomini della Famiglia di Brancaccio. Il racconto dettagliato del suo omicidio lo fornì Salvatore Grigoli, detto “u cacciaturi”, esecutore materiale dell'assassinio arrestato nel giugno del 1997 e subito diventato collaboratore di giustizia. Grigoli è stato uno dei più spietati killer del gruppo di fuoco dei Graviano: i giudici inquirenti lo definirono una “fabbrica inarrestabile di violenza”. Secondo la testimonianza del pentito, l'ordine di uccidere don Pino arrivò direttamente dai “picciotti” (i fratelli Graviano) attraverso Antonino Mangano, allora luogotenente della famiglia di Brancaccio e capo dell'ala militare. Puglisi fu raggiunto casualmente alle 20.30 del 15 settembre 1993 da quattro uomini dei Graviano. Il gruppo decise di agire dopo aver incrociato il prete per strada da solo: circostanza che rendeva il delitto più facile. Oltre Grigoli, facevano parte del gruppo Gaspare Spatuzza, Luigi Giacalone e Cosimo Lo Nigro. Questi ultimi due fecero il palo in macchina e Spatuzza fermò Puglisi mentre il religioso rincasava nel suo appartamento di Piazza Anita Garibaldi al civico 5. Il criminale - secondo quanto scoperto - bloccò Puglisi simulando una rapina, mentre Grigoli lo raggiunse da dietro sparandogli, dalla distanza di venti centimetri, un solo colpo di pistola alla nuca.

I processi e le condanne

Per l'omicidio, chiarì il processo alla Corte d'Assise di Palermo, fu usata una Beretta calibro 7,65 silenziata: un modo per tentare di depistare le indagini degli inquirenti. Un altro pentito informato dei fatti dichiarò che “si usa una pistola del genere, appunto, per non dire lo stampo di omicidio mafioso, perché di solito [...] almeno, tutti gli omicidi che ho fatto io, si sono fatti con calibro 38, con 357, oppure con fucili caricati a pallettoni mentre la 7,65 non è un’arma specifica per l’agguato mafioso, per come si prevedeva allora”. Il tentativo di depistaggio è stato confermato anche da un altro particolare raccontato da Grigoli, ovvero quello della sottrazione da parte di Spatuzza del borsello che Puglisi teneva sempre con sé. Il prete sarebbe stato dichiarato morto pochi minuti dopo l'agguato all'ospedale Buccheri La Ferla. Nel 1994 i fratelli Graviano, latitanti, vennero arrestati a Milano mentre cenavano in un ristorante. Il lungo processo a loro carico iniziò nel 1997 dopo un'ampia e complessa attività istruttoria sulle prove che si avvalse anche delle deposizioni di diversi pentiti. I Graviano furono condannati in via definitiva all'ergastolo come mandanti dell'omicidio, mentre Grigoli ottenne 16 anni di reclusione in virtù della sua collaborazione. Il movente dell'omicidio accertato in dibattimento fu “l'attività di impegno sociale e pastorale portata avanti” dal parroco a Brancaccio. Gli altri tre componenti del gruppo di fuoco e il capo Mangano furono condannati nell'ambito di un processo bis all'ergastolo per omicidio volontario aggravato. Con le condanne veniva definitivamente scritta la parola fine su uno dei capitoli più bui della recente storia italiana tratteggiata da quella “strategia stragista occidentale” avviata da Cosa Nostra con gli omicidi dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel 1992 e proseguita l'anno dopo con le stragi di Roma, Firenze e Milano e la sfida alla chiesa con l'eliminazione di Puglisi. Un'eliminazione solo fisica perché a venticinque anni di distanza, le parole e le opere del prete, diventato beato nel 2013, continuano a muovere le azioni di un intero quartiere: quello di Brancaccio a Palermo.

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