Trattativa Stato-mafia, Mori: sono nel giusto, continuerò a combattere

Cronaca

Raffaella Daino

Il generale dei Carabinieri Mario Mori (foto: Ansa)
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A un mese dalla sentenza di condanna di primo grado della corte d’Assise di Palermo sulla trattativa con la criminalità organizzata, l'ufficiale Ros rompe il silenzio: "Ho rispettato la legge e, soprattutto, la mia etica professionale. Sono sereno, non ho nessuna paura"

Il 27 luglio 2016 si chiude con quattro ergastoli e un'assoluzione il secondo processo sulla strage di Capaci. Il 20 aprile 2017 la sentenza del quarto processo sulla strage di via d’Amelio sancisce il colossale depistaggio ad opera di falsi pentiti e getta nuove ombre sui mandanti esterni. A 26 anni dalle stragi di mafia la verità lascia ancora il posto a tanti buchi neri. Nuove indagini, fanno sapere i magistrati, stanno per partire e nuovi processi sono inevitabili, anche se un altro tassello alla verità ancora incompleta lo aggiunge la sentenza di primo grado della corte d’assise di Palermo pronunciata il 20 aprile del 2018 al processo sulla trattativa Stato-mafia.

Le condanne in primo grado

Il tribunale condanna non solo boss, ma anche pezzi dello Stato. E conferma i capi di imputazione contestati dall’accusa a chi, per turbare la regolare attività di corpi politici dello Stato italiano e in particolare il Governo della Repubblica, usava minaccia, con l’organizzazione e l’esecuzione di stragi, omicidi e altri gravi delitti ai danni di esponenti politici e delle istituzioni; fatti commessi a Roma, Palermo e altrove a partire dal 1992. Per il reato di concorso in minaccia a un corpo politico dello Stato, con la condanna a 12 anni, viene attribuita tra gli altri la responsabilità agli ufficiali del Ros Mori e Subranni per il periodo 1992-1993 e a Dell'Utri per il "periodo del governo Berlusconi", il 1994.

Mori: "Sono sicuro di essere nel giusto"

Ora, a un mese esatto dalla sentenza di condanna, Mori rompe il silenzio e lo fa partecipando all'assemblea del partito radicale. Dice: “Continuerò a combattere sicuro di essere nel giusto, di aver rispettato la legge e, soprattutto, la mia etica professionale. Sono sereno e non ho nessuna paura". Mori ha sempre negato quanto sostenuto dall'accusa e confermato dalla sentenza di primo grado di Palermo e cioè che nel 1992 "i carabinieri del Ros avviarono una prima trattativa con l'ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, che avrebbe consegnato un ‘papello’ con le richieste di Totò Riina per fermare le stragi". Nega di avere incontrato l'ex sindaco mafioso prima della strage Borsellino. E oggi aggiunge: "Non si può comprendere il mio caso se non si parte dal 1989, quando Giuseppe De Donno (allora suo stretto collaboratore nel Ros) iniziò un'investigazione su quello che appariva un 'modesto' omicidio, ma dal quale emerse poi un contesto in cui la gestione degli appalti pubblici in Sicilia e altrove era guidata da un direttorio costituito da Cosa Nostra, imprenditori e politici".

Dell'indagine, prosegue Mori, "si interessò Giovanni Falcone fino a quando non fu trasferito al ministero a Roma. Lui insistette perché consegnassimo l'informativa, ma noi non eravamo convinti perché volevamo più tempo. Alla fine ci convinse e l'inchiesta mafia-appalti per 3-4 mesi sparì nel nulla, finché nel 1991 la procura emise 5 ordinanze di custodia cautelare: la montagna aveva partorito il topolino. L'informativa fu consegnata agli avvocati ed a quel punto anche la mafia seppe dove eravamo arrivati. Questo ci fece arrabbiare e lo dicemmo al procuratore della Repubblica: ci fu quindi grande crisi tra Procura e Ros".

Mori: "L'arresto di Riina fu il maggior successo nella lotta alla mafia"

"Nel 1992 - prosegue l'ex comandante del Ros - quando fu ucciso Falcone, Paolo Borsellino chiese di parlare con me e Giuseppe De Donno. Ci incontrammo nella caserma Carini di Palermo. Lui era convinto che l'inchiesta mafia-appalti fosse la causa dell'uccisione di Falcone, io non ero convinto perché potevano anche esserci altre cause. Borsellino riteneva comunque che quell'indagine fosse il sistema migliore per 'entrare' dentro Cosa Nostra e chiese che il Ros indagasse. Il 19 luglio fu ucciso anche lui, ma pochi giorni prima, il 13 luglio, due magistrati di Palermo chiesero l'archiviazione dell'inchiesta ed il 22 luglio il procuratore Giammanco firmò la richiesta di archiviazione che fu accordata il 14 agosto".

"A quel punto – ricorda Mori - io ruppi pesantemente con la Procura e queste vicende hanno dato vita ad una serie di incomprensioni. Non dico che tutta la ragione sta dalla mia parte, ma io e De Donno ci siamo comportati secondo la nostra etica professionale. La frattura riemerse poi con la cattura di Riina, forse il maggiore successo nella lotta alla mafia. Da lì è cominciato il confronto che non ha mai avuto fine".

Un successo, l’arresto di Riina, funestato dalla mancata perquisizione del covo: una lussuosa villa alla periferia di Palermo, in cui il boss si nascondeva e in cui i familiari ebbero 18 giorni di tempo per portare via ogni documento e addirittura imbiancare le pareti. Quando il 2 febbraio scattò la perquisizione ormai era troppo tardi. Dall’accusa di aver favorito Cosa Nostra il generale però fu assolto. Intanto le bombe mafiose continuavano ad esplodere. Non più in Sicilia, ma fra Roma, Milano e Firenze. E dopo l'arresto di Riina, nel gennaio 1993, i boss secondo i magistrati siciliani, avviarono una seconda “trattativa”, con altri referenti: Bernardo Provenzano e Marcello Dell'Utri.

Coinvolto in un altro processo, quello sul mancato arresto di Provenzano dopo una soffiata ricevuta nel ‘95, Mori fu assolto anche da quell’accusa. Dovranno passare altri anni per la conferma del reato di minaccia allo Stato. Quella del 20 aprile del 2018 per il pm Di Matteo è una sentenza storica che per la prima volta sancisce il patto di ferro tra i boss, i vertici dell’Arma e il fondatore di Forza Italia. “Dell’Utri – dice Di Matteo - ha fatto da cinghia di trasmissione tra le richieste di Cosa nostra e l’allora governo Berlusconi da poco insediato”. “Il messaggio intimidatorio fu trasmesso da Dell'Utri e recapitato a Berlusconi" conferma ad aprile di quest’anno la corte.

Fra pochi giorni saranno 26 anni dalla strage di Capaci

Intanto, quando mancano pochi giorni alle commemorazioni del 26esimo anniversario dalla morte di Giovanni Falcone, la figlia minore del giudice Borsellino, Fiammetta, va in carcere a trovare i boss Graviano. Lo fa per chiederne un pentimento ed emergono invece nuove allusioni sulla presunta vicinanza alla mafia di Silvio Berlusconi negli anni in cui si apprestava a “scendere in campo”. 

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