Thyssen, pg Cassazione: "Confermare sentenze d'appello"

Cronaca

Terzo atto giudiziario dell'incendio all'acciaieria piemontese della multinazionale tedesca che nel 2007 costò la vita a sette operai. Secondo il procuratore generale non fu omicidio volontario, ma colposo. Chiesta la conferma delle precedenti condanne

No all'omicidio volontario, sì alla conferma delle pene inflitte dalla Corte d'appello di Torino. Queste le richieste del procuratore generale Carlo Destro  in Cassazione nel terzo atto giudiziario della tragedia della Thyssenkrupp, il devastante incendio che nel dicembre del 2007 uccise sette operai della multinazionale tedesca dell'acciaio mentre lavoravano nello stabilimento piemontese. Devono diventare definitive, dunque, le condanne per omicidio colposo a carico dei sei imputati, a cominciare dai dieci anni di carcere per l'ex amministratore delegato, Harald Espenhahn, per poi passare a quelle che spaziano dai nove ai sette anni per i dirigenti.

L'avvocato Cesare Zaccone, uno dei numerosi componenti dello staff difensivo, ha assicurato che in caso di sentenza sfavorevole i quattro imputati italiani sono pronti a costituirsi (per i due tedeschi la procedura è leggermente più complessa). Parole pronunciate mentre fuori dal palazzo stazionano in presidio i familiari delle vittime, arrivati in treno da Torino con gli striscioni e le foto dei loro cari.

Nell'attesa di sapere come si pronunceranno gli ermellini - non è escluso un rinvio - gli avvocati possono già dire di aver messo a segno un primo punto: il pg ha chiesto alla Suprema Corte di respingere il ricorso presentato dalla procura di Torino, che era contraria alla riduzione delle pene operata in appello e che voleva la condanna di Espenhahn per omicidio volontario con la formula del dolo eventuale (sarebbe stata la prima volta in Italia in un processo per un incidente sul lavoro). "I manager e i dirigenti chiamati a vario titolo a rispondere della morte dei sette operai - ha detto Destro - facevano affidamento sulla capacità dei lavoratori di bloccare gli incendi che quasi quotidianamente si verificavano nell'acciaieria: chi agisce nella speranza di evitare un evento evidentemente, se l'evento si verifica, non può averlo voluto". Ha comunque sottolineato la "grandissima sconsideratezza" che caratterizzò gli ultimi mesi di vita dello stabilimento di Torino, in quel dicembre del 2007 ormai sul punto di chiudere in vista del trasloco a Terni: "Si è voluto continuare a produrre senza adeguate misure di sicurezza ma risparmiando quanto più possibile in vista dello smantellamento dell'impianto che sarebbe dovuto avvenire nel febbraio 2008, due mesi dopo il tragico rogo".

Per la difesa, che vorrebbe l'annullamento della sentenza d'appello, l'avvocato Franco Coppi ha definito "una follia" l'ipotesi del dolo, ha affermato che "le pene sono state applicate nella massima estensione" e ha parlato di "trattamento sanzionatorio pesantissimo". A suo giudizio la Corte torinese "non è stata affatto chiara per quanto riguarda la divisione delle responsabilità sul tema della sicurezza: ha fatto di tutta l'erba un fascio". Non è stato risparmiato un cenno al ruolo che nella tragedia hanno avuto le stesse vittime: "anche se in questa drammatica vicenda ci sono state senz'altro inosservanze delle norme di sicurezza, ricordo che quel giorno gli operai erano impegnati in una discussione fra loro e sono intervenuti in ritardo a spegnere l'incendio". "Gli imputati - è stata la conclusione - non avevano previsto che sarebbe potuta accadere una cosa del genere. Piccoli incendi si innescavano tutti i giorni ma venivano facilmente controllati. La colpa vera è quella di non aver previsto tutte le eventualità che sarebbero potute accadere".

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