Milano, provincia del Cairo: "Anche noi vogliamo cambiare"

Cronaca
Sara, 19 anni, è nata a Milano. Per lei quella in corso è "la rivoluzione dei giovani" ma dei blogger non si fida. Meglio la tv o i siti ufficiali, da commentare poi in famiglia o con gli amici di origine egiziane
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Discutono di politica e non si perdono un tg, i televisori di ristoranti e pizzerie sono sempre sintonizzati sui canali in lingua araba. Gli egiziani che vivono in Italia non hanno dubbi: "Il mondo va avanti, Egitto indietro"

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di Greta Sclaunich


La tv è sempre accesa. Nei ristoranti egiziani, nelle macellerie hallal, nei minimarket e nelle pizzerie. Ed è sintonizzata, sempre, sui canali in lingua araba: che sia Al Jazeera o la BBC, lo schermo rimanda le immagini della folla in piazza Tharir al Cairo, del presidente Hosni Mubarak nei suoi completi eleganti, di analisti, politici o politologi che discutono, in arabo, della rivoluzione che sta cambiando l’Egitto. E che molti egiziani a Milano (ce ne sono oltre 27mila, una buona fetta degli 82mila in tutta Italia) seguono con interesse.

Mario inforna una teglia di pizza, un occhio agli ingredienti e uno alle immagini di carri armati che sfilano sullo schermo appeso in un angolo della sua pizzeria. La comunità egiziana a Milano esiste dagli anni ’50 e per molti milanesi l’egiziano ha il volto del pizzaiolo sotto casa: anche Mario, a dispetto del nome italianissimo con cui si presenta, arriva dall’Egitto. Con alcuni clienti parla in italiano, con altri in arabo. Questo, e la tv sintonizzata sui canali arabi, sono gli unici indizi delle sue origini. Ha 40 anni e ha passato metà della sua vita a Milano. Non vuole parlare di quel che sta succedendo in Egitto, allarga le braccia e dice “ma cosa vuoi che ti dica?”. Ma quando resta solo nel locale si sbottona: “Non possiamo cacciare Mubarak come se non avesse fatto nulla per il Paese. Per questo io non vado a manifestare come altri. I problemi ci sono, è vero, ma se scacciamo lui chi sarà presidente al suo posto? Io temo i fondamentalismi: rischiamo di fare la fine dell’Iran”.
Anche Ahmed parla senza riuscire a distogliere gli occhi dallo schermo che sbuca tra lattine di salsa e bottiglie di succo di frutta nella sua macelleria hallal. Poi, davanti ad un primo piano di Mubarak, sbotta: “Bisogna cambiare, vogliamo un nuovo Governo, una democrazia. Sto in Italia da 15 anni, secondo te sarei venuto qui a poco più di vent’anni, in un paese straniero, lontano dalla mia famiglia e dai miei amici, se si viveva bene in Egitto?”. Non è solo nel locale: dietro il bancone c’è un ragazzo che impacchetta la carne, davanti agli scaffali clienti (tutti maschi) che esaminano spezie e couscous. Lanciano qualche occhiata alla tv, scuotono la testa e parlano in fretta in arabo. Poi uno si butta: sorride e dice, in un italiano incerto, “il mondo va avanti, Egitto indietro. Anche noi vogliamo cambiare”.

Nel locale di Sherif, un ristorante in via Padova dove il menu è scritto prima in arabo e poi in italiano, la tv ha il posto d’onore: sta nell’angolo tra le due porte a vetri, davanti al bancone con le pietanze in bella vista. Sotto il proprietario ha appeso un’enorme bandiera dell’Egitto. “Mi sento egiziano anche se vivo in Italia da trent’anni. Non ho voluto prendere la cittadinanza italiana. Ma non ho nemmeno mai voluto votare in Egitto”, spiega indicando la bandiera. Non c’è sempre stata, quella bandiera sotto la tv. E anche se lui dice di non voler parlare delle proteste, perché gli da fastidio l’attenzione internazionale e i problemi dell’Egitto “li dobbiamo risolvere noi egiziani”, quella bandiera suona un po’ come una dichiarazione. Simboleggia la fiducia e l’orgoglio per uno stato coperto dalla patina di una dittatura: “Mubarak deve andarsene. Ma non scappando come ha fatto Ben Alì, noi non siamo come la Tunisia. Il figlio Gamal al potere? Non siamo nemmeno una tribù dove il figlio del capo diventa capo”.
In piedi accanto alla porta, Sherif saluta uno per uno gli avventori. Molti sono egiziani: si salutano in arabo e poi gli sguardi corrono allo schermo della tv. Mahmoud e Moussa, due imbianchini ventenni, pranzano con il viso rivolto verso lo schermo. Sono arrivati in Italia da qualche anno, l’Egitto è una realtà troppo vicina per ignorare quel che sta succedendo. Mentre mangiano, lo sguardo continua a saettare verso lo schermo: parlano dei genitori “che stanno bene ma che devono stare attenti quando escono di casa”, degli amici “in piazza con tutti gli altri”, del Paese dove vorrebbero tornare “se solo ci fosse più libertà e ricchezza”. In un angolo, una coppia che sorseggia un the alla menta smette di flirtare quando Mubarak appare sullo schermo: ma è solo un’immagine di repertorio, niente discorsi né nuove dichiarazioni, e i due riprendono a parlare fitto fitto.

Da Sara, 19 anni, ti aspetteresti qualche commento su blog e Twitter. Invece anche lei, immigrata di seconda generazione come la descrivono le statistiche e “sia italiana che egiziana” come si definisce lei, segue le proteste dal piccolo schermo. “Mi informo anche su internet, ma solo sui siti ufficiali: mi sembrano i canali più sicuri, non mi fido dei blog perché spesso mischiano i fatti ai pareri personali degli autori”, spiega davanti al bancone di un negozio di articoli per musulmani. Per lei questa “è la rivoluzione dei giovani, quelli nati e vissuti sotto Mubarak. Quelli che non hanno paura di scendere in strada e che parlano di politica anche se è rischioso. Il cugino di una mia amica, giù in Egitto, è stato arrestato solo per aver discusso di politica in un bar”. Lei di politica, invece, ne parla spesso. In famiglia, con genitori e fratelli. Con gli amici italiani. E, da poco, anche con quelli di origini egiziane come lei: “Di Mubarak non parlavamo mai. Ora invece ne discutiamo spesso e siamo tutti d’accordo: vorremmo essere in piazza Tharir insieme ai ragazzi della nostra età”. Quella piazza nel centro del Cairo dove forse non c’è mai stata ma che è presente a ogni telegiornale.

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