L'Italia? La repubblica delle frane

Cronaca
Un edificio di Giampilieri (Messina), a un anno dall'alluvione che l'ha colpita
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Calabria, Campania, Sicilia, Toscana e Abruzzo: oltre la metà degli italiani vive in aree soggette ad alluvioni, terremoti e fenomeni vulcanici. Lo raccontano Jampaglia e Molinari in “Salvare l’acqua”, un saggio edito da Feltrinelli. Leggine un estratto

di Claudio Jampaglia ed Emilio Molinari

La sera del primo ottobre 2009 piove forte sulla Sicilia Nord-orientale. Più che pioggia, un nubifragio. A mezzanotte cominciano i crolli sulla costa ionica messinese, paesi costruiti su zone già franate, pericolose, senza piano urbanistico, abusive… All'alba si comprende il disastro: 38 morti. Intere frazioni scomparse tra Messina e Scaletta Zanclea. Della stazione di Giampilleri non resta che il cartello. Le telecamere mostrano la tragedia, i giornali raccontano la cronaca dell'ennesimo disastro annunciato e i gesti di eroismo del marinaio Simone Neri, disperso dopo aver messo in salvo otto persone.
L'ennesimo “angelo del fango” della storia patria. Due anni prima, sempre ad ottobre, una valanga di melma aveva invaso le stesse frazioni, causando fortunatamente solo danni materiali. Non era bastato come monito? Evidentemente no.
Sulle eventuali responsabilità penali legate al disastro si occupa la Procura di Messina, ma la storia del perché non si riescano a prevenire tragedie come queste è sempre la stessa: abbandono del territorio agricolo e forestale (con incendi dolosi a “liberare” le aree per l'abusivismo), una lentezza incredibile nella formulazione dei piani di protezione ambientale, la messa in sicurezza del territorio sempre rinviata, riduzione delle risorse per Comuni e interventi programmati, conflitti di competenze, incompetenze… E basta che un giorno si metta a piovere più forte del previsto e arriva “la calamità naturale”.
La stessa che nelle settimane seguenti a Messina colpisce la Versilia, la Lucchesia, Calabria, Campania e ancora Sicilia… Naturale?
Il Parlamento incarica subito la “Commissione ambiente, territorio e lavori pubblici della Camera” di riformulare “il piano nazionale straordinario per il rischio idrogeologico”, di cui si discute da anni. Dopo due mesi vota un “atto d'indirizzo”, praticamente all'unanimità (due astenuti), sulla “messa in sicurezza del territorio, la riqualificazione edilizia e l'edilizia sostenibile”: una di quelle tragiche quanto generiche prese d'atto delle istituzioni che però fotografa la “bomba” su cui tutti gli italiani sono seduti. Oltre la metà della popolazione vive in aree soggette ad alluvioni, frane, smottamenti, terremoti, fenomeni vulcanici: l’estensione delle aree a criticità idrogeologica è pari al 9,8% del territorio nazionale (il 6,8% coinvolge direttamente centri urbani, infrastrutture ed aree produttive); “sono a rischio elevato l’89% dei comuni umbri, l’87% di quelli lucani, l’86% di quelli molisani, il 71% di quelli liguri o valdostani, il 68% di quelli abruzzesi, il 44% di quelli lombardi”. Secondo una mappatura del Cresme (il centro studi degli operatori dell'edilizia) oltre 20.000 edifici pubblici, tra cui scuole e ospedali, sono stati realizzati in aree dichiarate di estrema pericolosità.

La colpa, più che della geografia, è di quello che abbiamo chiamato finora sviluppo, perché usiamo il territorio male e costruiamo troppo: in quindici anni abbiamo perso oltre 3,6 milioni di ettari di superfici agricole a fronte di oltre tre miliardi di metri cubi di nuovi capannoni industriali e lottizzazioni residenziali. Siamo il paese con la più alta disponibilità di abitazioni in Europa, oltre 32 milioni (di cui il 20% non abitate).
Ogni italiano, neonati compresi, dispone di una superficie abitativa di 62 metri quadrati. E continuiamo a costruire. Perché il mattone è un investimento, uno status, un'ossessione. Dal 2003 al 2009, sono state edificate oltre 1.600.000 nuove case (almeno il 10% abusive) nonostante da 20 anni la popolazione italiana cali sensibilmente riuscendo a non invecchiare definitivamente solo grazie ai “nuovi italiani” e al flusso migratorio. Di spazio, però, ce n'è sempre meno, perché ci stiamo mangiando la terra. Col cemento. Il quadro appena descritto è molto simile a quello descritto in Parlamento dopo la strage della Val Stava nel 1985 oppure dopo quella di Sarno nel 1998 (268 morti la prima, 137 la seconda).
Chi se le ricorda? Pochi, essenzialmente quelli a cui è toccato. Eppure ogni angolo d'Italia ha la sua calamità. Dal 1930 oltre 5.400 alluvioni e 470mila frane recensite, di cui 11.000 gravi. I morti, dal 1960, sono 3.500, sei al mese.

L'Italia è una Repubblica franosa fondata sul fatalismo. Lo sanno tutti, lo ammette anche il Parlamento che dal 1970, con “la commissione interministeriale per lo studio della sistemazione idraulica e della difesa del suolo”, aggiorna l'inchiesta nazionale sul dissesto idrogeologico e il relativo “piano d'intervento”.
Peccato che ci siano voluti 19 anni perché le indicazioni della commissione diventassero legge (la 183 del 1989 sulla difesa del suolo). Oggi come ieri se ne parla, ma si fa poco. Eppure un rischio così incombente per il territorio e la popolazione dovrebbe riscuotere la massima attenzione di qualsiasi governo. Se non altro per quei 21 miliardi di euro che ci sono costate alluvioni e frane nel decennio 1994-2004 (dati del Politecnico di Milano). Due miliardi all'anno che potevano essere investiti in prevenzione. Meglio aspettare e poi piangere, disperarsi, invocare un salvatore, mentre chi di dovere appalta d'urgenza, commissiona, interviene.
Fatalismo programmatico che fa comodo a chi sulle emergenze campa, al keynesismo del disastro, e dovrebbe essere combattuto da chi convive col rischio idrogeologico o sismico. Quello che molti cittadini dell’Aquila stanno discutendo da quelle maledette 3:32 del 6 aprile 2009 è esattamente questo: quale ricostruzione permette di ridurre il rischio e di convivere con la sismicità del territorio?
Mentre gli aquilani s'interrogano, la Protezione civile continua a portare avanti il piano straordinario per l'Abruzzo e si vede affidare dal governo un miliardo di euro anche per l'emergenza idrogeologica: soldi prelevati dai fondi per le aree disagiate del Sud che la Protezione gestirà di concerto con le Regioni. Almeno finché non entrerà in vigore il decreto di fondazione della Protezione Civile S.p.A., presentato e insabbiato più volte dal governo dopo gli scandali che hanno toccato i vertici dell'ente. Nella nuova azienda pubblica, la messa in sicurezza del territorio sarebbe affidata a tre commissari plenipotenziari (Nord, Centro, Sud e Isole) liberi di agire in deroga a tutto, senza rapportarsi con le autorità di bacino e nemmeno con le Regioni.

Un nuovo centralismo, privatizzato, che fa a pugni con quello che dicono tutte le leggi sulla difesa del suolo. E che mette le mani di pochi sul bene di tutti. D'altra parte, in Italia sembra davvero impossibile pianificare sul territorio: troppe competenze, troppi enti, leggi, dispersioni… Qualche novità salutare è arrivata dall'Europa che ci ha obbligato a riconoscere “il territorio come bene comune, risorsa limitata ed esauribile, presupposto irrinunciabile per una pianificazione urbanistica sostenibile”.
Un principio confermato nella “nuova politica nazionale per il governo del territorio” varata nel gennaio 2010 dove si parla con chiarezza di contrasto all'abusivismo, coordinamento a tutti i livelli istituzionali, monitoraggio, finanziamenti… Esiste anche un piano ventennale per “la sistemazione complessiva della situazione di dissesto nazionale” da 44 miliardi di euro, più altri quattro per “il recupero e la tutela del patrimonio costiero”. Poco se pensiamo che per acquistare 131 cacciabombardieri F35 Jet Start Fighter, poche settimane dopo il terremoto in Abruzzo, il governo ha impegnato fino al 2022 più di 13 miliardi di euro.
È più urgente doversi difendere da attacchi via cielo e mare di eserciti nemici o da frane e smottamenti che distruggono il paese? “Siamo in guerra contro le calamità”, sarebbe anche un bello slogan patriottico per una campagna nazionale contro il dissesto. Ma nessun partito o politico lo propone. E alle belle parole della “nuova politica del territorio” non seguono i fatti.
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano

Tratto da Claudio Jampaglia, Emilio Molinari, Salvare l'acqua, Feltrinelli, pp.220, euro 15

Claudio Jampaglia, giornalista, già caporedattore di Diario e Liberazione, attualmente free-lance, collabora con testate online (dust.it), radio, televisive e cartacee. Ha curato per Feltrinelli "Porto Alegre, il Forum sociale mondiale" (con Thomas Bendinelli, 2002), per Ponte alle Grazie “Cgil, 100 anni al lavoro” (con Andrea MIlluzzi, 2006) e per Isbn la versione italiana di “Guerrilla Kit” (2005). Prima di dedicarsi al giornalismo ha lavorato nel settore dell'ingegneria ambientale e svolto ricerche universitarie sul tema della privatizzazione dell'acqua.

Emilio Molinari, ambientalista, tra i fondatori del movimento antinucleare italiano e animatore del gruppo lombardo che portò alla chiusura della Centrale Elettronucleare di Caorso. Già Consigliere Regionale della Lombardia, e Senatore. Negli anni ’80-90 ha collaborato con LegaAmbiente alla costituzione del primo Osservatorio dei rifiuti tossici-nocivi e in tale veste ha collaborato con il pool di esperti del Nucleo Ispettivo del Corpo delle Guardie Forestali della Lombardia sui traffici di rifiuti tossici. Relatore in tutti i Forum Sociali Mondiali e nei Forum Panamazzonici sulla questione dell’acqua. Autore del libro “Acqua: argomenti per una battaglia” (Puntorosso Edizioni), premio Elsa Morante 2009. È stato presidente del Comitato Italiano per un Contratto Mondiale sull’acqua.

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