Marocchina, studia italiano: stuprata. Samia e le altre
CronacaIn Veneto una giovane donna marocchina, violentata e segregata dal marito perché si era ribellata alle sue regole, riesce a fuggire e a denunciare i maltrattamenti. Una storia che ricorda quelle di Hina e Samaa, finite purtroppo nel sangue
Dal Marocco all’Italia. E all’inferno di un matrimonio combinato e violento. Samia (è il nome di fantasia usato dal Corriere del Veneto che riporta la notizia), poco più che ventenne, circa un anno fa è costretta dalla famiglia a sposare un connazionale di dieci anni più vecchio, conosciuto solo tre giorni prima del matrimonio. Arrivata con lui in Italia, in provincia di Vicenza, è decisa a fare la volontà dei suoi genitori. “Ho fatto questa scelta – scrive nel diario –, era importante per i miei. Ora voglio solo essere una brava moglie”. Ma la convivenza con la suocera e la cognata si fa difficile e quando Samia confida i propri problemi al marito, lui lo interpreta come una volontà di ribellione. Come anche la richiesta della ragazza di poter studiare italiano. Cominciano i maltrattamenti e le botte. L’uomo la costringe ad avere rapporti sessuali e la segrega in casa per giorni. Alla fine Samia riesce a fuggire e a denunciare tutto ai carabinieri, in un italiano imparato di nascosto dalla televisione.
Ora Samia ha una famiglia che l’ha accolta e ha trovato un lavoro. La sua storia è a lieto fine. Le ragazze di origine islamica in Italia sono spesso al centro di un conflitto tra la cultura e le tradizioni rigidamente imposte dalla famiglia e la voglia di adottare gli stili di vita occidentali. “Si comportava da occidentale e rischiava di diventare come le ragazze di qui”, ha spiegato agli inquirenti Mohammed Saleem, il padre di Hina, dopo aver confessato di essere l’assassino della figlia. La giovane di origini pachistane, 20 anni, è stata sgozzata e seppellita nel giardino di casa l’11 agosto 2006 in provincia di Brescia. Il cadavere aveva la testa rivolta verso la Mecca. La madre di Hina giustificò pubblicamente il marito, condannato in via definitiva a trent’anni di carcere: “Hina era una ragazza ribelle, non obbediva”, ha dichiarato.
Tre anni dopo l’omicidio di Hina, nel settembre 2009, un altro padre-padrone si è fatto giustizia con l’estrema violenza. Vicino a Pordenone Sanaa Dafani, 18enne marocchina, ha pagato con la vita il suo amore per un ragazzo italiano, Massimo De Biasio, 31 anni. “Sei la mia vergogna”, le gridava spesso il padre. Sanaa lavorava come cameriera e voleva andare a vivere con il suo fidanzato. Una sera la macchina dei due viene fermata per strada dal padre di lei, che con un grosso coltello ferisce il ragazzo. Poi insegue la figlia nel bosco e infierisce fin quasi a decapitarla. Katawi Dafani, 45 anni, è stato condannato in primo grado all’ergastolo. Fuori dal tribunale Massimo, con ancora addosso i segni delle coltellate, ha abbracciato piangendo la sorellina di Sanaa, Wafaa.
Anche Almas, 17enne di Senigallia, aveva disobbedito al padre. Lui diceva che con i suoi modi di fare all’occidentale lo umiliava davanti alla comunità pachistana. E il Tribunale dei minori gliel’aveva tolta per maltrattamenti. Aktar Mahmood, 40 anni, lo scorso gennaio ha quindi deciso di rapire la ragazza fuori da scuola. Con il resto della famiglia l’ha caricata in auto per portarla a Roma, forse pensava di farla sposare a un connazionale. Ma i carabinieri li hanno trovati e Almas è stata affidata a una casa di accoglienza. Il padre ha dichiarato davanti al giudice di essersi rassegnato a lasciarla andare.