Il presidente di Confindustria Sicilia sull'operazione che ha fatto emergere le infiltrazioni delle cosche calabresi nell'economia lombarda: l’omertà degli imprenditori del Nord è un brutto segnale ma in Lombardia c'è chi contrasta il potere mafioso
di Cristina Bassi
“La mafia al Nord è stata a lungo sottovalutata e certi episodi di omertà da parte degli imprenditori taglieggiati mi ricordano la Sicilia di qualche anno fa. Ma è anche vero che gli anticorpi alla criminalità si sviluppano gradualmente”. Ivan Lo Bello, presidente di Confindustria Sicilia, è rimasto “molto sorpreso” dalla realtà messa in luce dalla recente inchiesta delle procure di Milano e Reggio Calabria.
Oltre 130 attacchi incendiari a danno di imprenditori e più di 70 episodi intimidatori con armi, munizioni ed esplosivi. Denunce da parte degli obiettivi delle minacce: nessuna. Non siamo in Sicilia e neppure in Calabria, ma in Lombardia, nel cuore economico del Paese. Dove l’omertà come risposta al potere mafioso stupisce e preoccupa gli inquirenti più che altrove. L’operazione “Infinito”, che ha portato a oltre 300 arresti tra Milano e Reggio ha dimostrato che l’infiltrazione della ‘ndrangheta in Lombardia è tale da aver trasformato la regione in una vera “colonia” delle cosche calabresi. Un radicamento fatto di boss eletti per guidare “il crimine” al Nord, di stretti rapporti con politici e amministratori che gestiscono appalti e, appunto, di controllo violento del tessuto economico.
Anche Claudio De Albertis, presidente di Assimpredil (l’associazione delle imprese edili di Milano e provincia) in un’intervista al Corriere della Sera ammette: “Abbiamo sottovalutato il problema. Ora però l’allarme è scattato, il contrasto alle infiltrazioni malavitose è il nostro primo obiettivo”. A chi gli chiede conto delle mancate denunce De Albertis risponde che “non è facile. Perché le informazioni che abbiamo rispetto alle imprese che ci mettiamo in cantiere con i subappalti sono scarsissime”. Difficile quindi, per il leader degli impresari edili milanesi, distinguere tra quelle “sane” e quelle “inquinate”.
Commercianti e piccoli imprenditori, soprattutto edili, complici o più spesso costretti con la forza a fare affari con la ‘ndrangheta. Vittime del racket che per paura o omertà non parlano con gli inquirenti, non si rivolgono alle forze dell’ordine per denunciare estorsioni e intimidazioni. In alcuni casi negano persino l’evidenza davanti ai magistrati che chiedono loro conto di episodi documentati, diventando così favoreggiatori dei mafiosi. Uno scenario che Lo Bello conosce fin troppo bene. E che ha deciso di contrastare, introducendo tre anni fa un codice etico di rottura: chi paga il pizzo ai boss, viene espulso dall’associazione. Da settembre 2007, sono una sessantina le aziende uscite da Confindustria Sicilia, tra allontanamenti spontanei, sospensioni ed espulsioni. Altre venti sono attualmente sotto esame. È una risposta forte alla criminalità organizzata e anche un modello da seguire per gli industriali del Nord. Non solo sulla carta.
“L’omertà degli imprenditori lombardi non è di certo un buon segnale – continua Lo Bello –. Che la ‘ndrangheta fosse radicata al Nord era noto, ma la Lombardia non è un territorio tradizionalmente ostaggio del racket. Per questo ha fatto bene Ilda Boccassini ad arrestare per favoreggiamento quell’imprenditore vittima di usura, che però ha negato tutto anche dopo che i fatti erano stati dimostrati dalle indagini”.
Tuttavia il leader degli industriali siciliani non crede che i suoi colleghi del Nord siano nelle mani della mafia. “Ho riscontrato anche molti segnali positivi – assicura –, soprattutto a livello associativo. Quando abbiamo varato il nostro codice etico e lo abbiamo trasmesso alle altre regioni, Assolombarda è stata la prima ad adottarlo. Gli industriali del Nord conoscono bene le problematiche legate alle infiltrazioni mafiose e il livello di attenzione è alto. Quelli denunciati dagli inquirenti sono fatti gravi, c’è stata un’omertà inusuale, che non si addice a una regione con forti valori civili. Senza dubbio all’interno della nostra categoria esistono contraddizioni. Nell’ultimo periodo però nelle associazioni degli industriali settentrionali è maturata una nuova sensibilità. C’è chi lavora per prevenire l’inquinamento mafioso”.
Per alzare la testa, spiega Lo Bello, occorre prima di tutto maturare consapevolezza. “La mafia bisogna conoscerla e parlarne il più possibile: il silenzio è alla base del suo potere – sottolinea – . Di conseguenza le denunce e l’azione giudiziaria sono fondamentali. Da noi chi non collabora con la giustizia viene espulso dall’associazione e sarebbe grave se al Nord si continuasse a non denunciare e a non collaborare. Noi abbiamo sviluppato gli anticorpi dopo una storia complessa e in un contesto anche più difficile. La strada da seguire è la stessa che abbiamo seguito in Sicilia. Alla fase della repressione e a un’inchiesta giudiziaria così importante, seguirà di certo anche in Lombardia un cambiamento culturale”.
Il presidente di Confindustria Sicilia è sicuro che quello che stanno riuscendo a fare gli imprenditori dell’isola sia alla portata dei colleghi del Nord che, spiega, “operano in un’economia più aperta al mercato e non hanno alle spalle una lunga storia mafiosa”. Per Lo Bello, l’esempio siciliano dimostra che la chiave di volta è il controllo sociale: “Ce lo dobbiamo riprendere – conclude –. Le mafie sono forti proprio perché hanno nel loro Dna la capacità di condizionare politica ed economia e da parte della società civile ci sono segnali preoccupanti di debolezza. La lotta alla criminalità organizzata non va delegata allo Stato, rappresentato da magistratura e forze dell’ordine, perché la mafia inquina la società ed è la società che deve agire concretamente per combatterla”.
“La mafia al Nord è stata a lungo sottovalutata e certi episodi di omertà da parte degli imprenditori taglieggiati mi ricordano la Sicilia di qualche anno fa. Ma è anche vero che gli anticorpi alla criminalità si sviluppano gradualmente”. Ivan Lo Bello, presidente di Confindustria Sicilia, è rimasto “molto sorpreso” dalla realtà messa in luce dalla recente inchiesta delle procure di Milano e Reggio Calabria.
Oltre 130 attacchi incendiari a danno di imprenditori e più di 70 episodi intimidatori con armi, munizioni ed esplosivi. Denunce da parte degli obiettivi delle minacce: nessuna. Non siamo in Sicilia e neppure in Calabria, ma in Lombardia, nel cuore economico del Paese. Dove l’omertà come risposta al potere mafioso stupisce e preoccupa gli inquirenti più che altrove. L’operazione “Infinito”, che ha portato a oltre 300 arresti tra Milano e Reggio ha dimostrato che l’infiltrazione della ‘ndrangheta in Lombardia è tale da aver trasformato la regione in una vera “colonia” delle cosche calabresi. Un radicamento fatto di boss eletti per guidare “il crimine” al Nord, di stretti rapporti con politici e amministratori che gestiscono appalti e, appunto, di controllo violento del tessuto economico.
Anche Claudio De Albertis, presidente di Assimpredil (l’associazione delle imprese edili di Milano e provincia) in un’intervista al Corriere della Sera ammette: “Abbiamo sottovalutato il problema. Ora però l’allarme è scattato, il contrasto alle infiltrazioni malavitose è il nostro primo obiettivo”. A chi gli chiede conto delle mancate denunce De Albertis risponde che “non è facile. Perché le informazioni che abbiamo rispetto alle imprese che ci mettiamo in cantiere con i subappalti sono scarsissime”. Difficile quindi, per il leader degli impresari edili milanesi, distinguere tra quelle “sane” e quelle “inquinate”.
Commercianti e piccoli imprenditori, soprattutto edili, complici o più spesso costretti con la forza a fare affari con la ‘ndrangheta. Vittime del racket che per paura o omertà non parlano con gli inquirenti, non si rivolgono alle forze dell’ordine per denunciare estorsioni e intimidazioni. In alcuni casi negano persino l’evidenza davanti ai magistrati che chiedono loro conto di episodi documentati, diventando così favoreggiatori dei mafiosi. Uno scenario che Lo Bello conosce fin troppo bene. E che ha deciso di contrastare, introducendo tre anni fa un codice etico di rottura: chi paga il pizzo ai boss, viene espulso dall’associazione. Da settembre 2007, sono una sessantina le aziende uscite da Confindustria Sicilia, tra allontanamenti spontanei, sospensioni ed espulsioni. Altre venti sono attualmente sotto esame. È una risposta forte alla criminalità organizzata e anche un modello da seguire per gli industriali del Nord. Non solo sulla carta.
“L’omertà degli imprenditori lombardi non è di certo un buon segnale – continua Lo Bello –. Che la ‘ndrangheta fosse radicata al Nord era noto, ma la Lombardia non è un territorio tradizionalmente ostaggio del racket. Per questo ha fatto bene Ilda Boccassini ad arrestare per favoreggiamento quell’imprenditore vittima di usura, che però ha negato tutto anche dopo che i fatti erano stati dimostrati dalle indagini”.
Tuttavia il leader degli industriali siciliani non crede che i suoi colleghi del Nord siano nelle mani della mafia. “Ho riscontrato anche molti segnali positivi – assicura –, soprattutto a livello associativo. Quando abbiamo varato il nostro codice etico e lo abbiamo trasmesso alle altre regioni, Assolombarda è stata la prima ad adottarlo. Gli industriali del Nord conoscono bene le problematiche legate alle infiltrazioni mafiose e il livello di attenzione è alto. Quelli denunciati dagli inquirenti sono fatti gravi, c’è stata un’omertà inusuale, che non si addice a una regione con forti valori civili. Senza dubbio all’interno della nostra categoria esistono contraddizioni. Nell’ultimo periodo però nelle associazioni degli industriali settentrionali è maturata una nuova sensibilità. C’è chi lavora per prevenire l’inquinamento mafioso”.
Per alzare la testa, spiega Lo Bello, occorre prima di tutto maturare consapevolezza. “La mafia bisogna conoscerla e parlarne il più possibile: il silenzio è alla base del suo potere – sottolinea – . Di conseguenza le denunce e l’azione giudiziaria sono fondamentali. Da noi chi non collabora con la giustizia viene espulso dall’associazione e sarebbe grave se al Nord si continuasse a non denunciare e a non collaborare. Noi abbiamo sviluppato gli anticorpi dopo una storia complessa e in un contesto anche più difficile. La strada da seguire è la stessa che abbiamo seguito in Sicilia. Alla fase della repressione e a un’inchiesta giudiziaria così importante, seguirà di certo anche in Lombardia un cambiamento culturale”.
Il presidente di Confindustria Sicilia è sicuro che quello che stanno riuscendo a fare gli imprenditori dell’isola sia alla portata dei colleghi del Nord che, spiega, “operano in un’economia più aperta al mercato e non hanno alle spalle una lunga storia mafiosa”. Per Lo Bello, l’esempio siciliano dimostra che la chiave di volta è il controllo sociale: “Ce lo dobbiamo riprendere – conclude –. Le mafie sono forti proprio perché hanno nel loro Dna la capacità di condizionare politica ed economia e da parte della società civile ci sono segnali preoccupanti di debolezza. La lotta alla criminalità organizzata non va delegata allo Stato, rappresentato da magistratura e forze dell’ordine, perché la mafia inquina la società ed è la società che deve agire concretamente per combatterla”.