"Se la colpa è di chi muore": la tragedia dell'Umbria Olii
CronacaIl 25 novembre 2006 quattro operai muoiono per l'espolosione dei silos nello stabilimento di Campello. In un saggio Castelvecchi, Fabrizio Ricci ricostruisce la vicenda fino alla richiesta di risarcimento dell'azienda alle vittime. LEGGI L'INTRODUZIONE
di Fabrizio Ricci
Spoleto, 24 novembre 2009
I corridoi del Tribunale di Spoleto sono molto stretti. Lo spazio è poco e la gente tanta. Si aspetta che il giudice Alberto Avenoso sbrighi velocemente alcune piccole udienze e intanto si sta così, gomito a gomito fuori dall’aula.
L’imputato e le vedove sono a pochi metri l’uno dalle altre, ma non si guardano. Tutti aspettano che tocchi a loro, che prenda il via il processo così lungamente atteso. Perché è così che vanno le cose nei tribunali italiani, specie se piccoli come quello di Spoleto. In ogni caso, un’ora in più fa poca differenza dopo tre anni di attesa. Ad aspettare che venga il loro turno ci sono anche gli avvocati, tanti, tutti vestiti allo stesso modo, con la classica toga forense nera.
Dev’essere una sofferenza portarla, visto il gran caldo che fa qui dentro. Naturalmente poi ci sono anche le telecamere. Non molte a dire la verità. Qualche giornalista si muove tra i vari capannelli di persone, taccuino alla mano in cerca di una battuta da carpire, di un commento da riportare. C’è anche qualche fotografo e poi ci sono sindacalisti, un paio di politici, gente comune richiamata dall’evento.
Il 24 novembre 2009 il processo per una delle più drammatiche stragi sul lavoro della recente storia italiana muove finalmente i suoi primi passi. Lo fa proprio un giorno prima del terzo anniversario della tragedia. Tre anni, meno un giorno, dopo quel 25 novembre 2006, quando quattro operai che lavoravano sopra un silos dell’oleificio Umbria Olii di Campello sul Clitunno saltarono in aria in una gigantesca esplosione che avrebbe poi scatenato un inferno di fuoco e terrore nel piccolo paese della valle umbra. «Tre anni sono un tempo giusto per finire un processo, non per iniziarlo», pensa ad alta voce Fiorella Grasselli, vedova di Giuseppe Coletti, uno dei lavoratori uccisi nell’incidente.
Accanto a lei siede un’altra vedova, Anila Todhe, moglie di Vladimir, il più giovane tra le vittime e anche l’unico straniero. Morena Sabatini invece se ne sta in piedi, un po’ in disparte come al solito. Lei era sposata con il titolare dell’azienda appaltatrice che stava effettuando i lavori sui silos della Umbria Olii, Maurizio Manili. Ha sempre preferito tenere un profilo basso, molto discreto. Scambia qualche parola soltanto con il suo avvocato e con Klaudio Demiri, l’unico sopravvissuto al disastro, un ragazzo che aveva un rapporto speciale con suo marito. La vedova di Tullio Mottini non c’è, lei in Tribunale non è mai andata nemmeno durante l’udienza preliminare. Evidentemente preferisce restare fuori dal processo e forse anche dai ricordi. Quando le porte dell’aula si riaprono e il giudice Avenoso prende il suo posto sotto la scritta «La legge è uguale per tutti » la tensione diventa palpabile.
Ad assistere all’udienza ci sono anche alcuni dipendenti dell’Umbria Olii, da sempre schierati a difesa del loro titolare, Giorgio Del Papa, oggi nelle vesti di imputato. Questa presenza innervosisce non poco i familiari delle vittime che non lo nascondono. Già altre volte si è sfiorato lo scontro, evitato solo grazie all’intervento delle forze dell’ordine. Ma ora in aula c’è silenzio. Si comincia sul serio. Il giudice chiarisce subito che prima di ogni altra cosa dovrà analizzare le richieste di costituzione di parte civile. Dovrà decidere quindi se potranno entrare nel processo, oltre alle parti «naturali», anche i soggetti istituzionali che lo hanno richiesto: Comune di Campello, Regione dell’Umbria, Ministero dell’Ambiente, Inail e poi i sindacati, Cgil, Cisl e Uil.
Tutte richieste che la difesa di Giorgio Del Papa, imputato per omicidio colposo plurimo con l’aggravante della colpa cosciente, di disastro colposo e di omissione dolosa dei mezzi di prevenzione, contesta duramente. Il giudice allora si prende una ventina di giorni per studiare le carte, ma annuncia che intende fissare un calendario di udienze molto fitto, per procedere speditamente. Tutto qui, per la prima udienza può bastare così. E mentre la piccola folla esce dall’aula del Tribunale di Spoleto, uno degli avvocati delle vedove risponde alle domande dei giornalisti. Vogliono sapere che cosa ne pensa di questo inizio, di questa prima udienza. Lui risponde seccamente: «Questi sono solo passaggi formali. Il processo vero e proprio non inizierà prima di gennaio».
Insomma, si è partiti, ma c’è ancora da attendere. Che poi è il refrain di questa storia, il tempo che scorre, mentre per quelle quattro vittime tutto resta fermo. Per il terzo anniversario della loro morte, il giorno dopo, ai cancelli della Umbria Olii viene agganciata una catena con quattro lucchetti. Su ognuno c’è il nome di uno dei lavoratori uccisi. Ma all’indomani la catena già non c’è più, è stata rimossa. Il timore è che, in un Paese dalla memoria breve come l’Italia, insieme alla catena possa presto essere rimossa e dimenticata anche quell’indignazione così forte e determinata che aveva scosso un’intera nazione un sabato di novembre del 2006.
©Alberto Castelvecchi editore srl. Tutti i diritti riservati
Tratto da Fabrizio Ricci, "Se la colpa è di chi muore", Castelvecchi editore, (pp.186, euro 15)
Fabrizio Ricci (Perugia, 1978), giornalista professionista, ha lavorato per tre anni come redattore al "Giornale dell'Umbria". Dal 2007 è responsabile dell'ufficio stampa regionale della Cgil Umbria, dal 2009 collabora con Rassegna.it. Ha scritto i libri Le città di Perugia (Era Nuova, 2005, con Marcello Catanelli) e La Perugina è storia nostra (Ediesse, 2007)
Spoleto, 24 novembre 2009
I corridoi del Tribunale di Spoleto sono molto stretti. Lo spazio è poco e la gente tanta. Si aspetta che il giudice Alberto Avenoso sbrighi velocemente alcune piccole udienze e intanto si sta così, gomito a gomito fuori dall’aula.
L’imputato e le vedove sono a pochi metri l’uno dalle altre, ma non si guardano. Tutti aspettano che tocchi a loro, che prenda il via il processo così lungamente atteso. Perché è così che vanno le cose nei tribunali italiani, specie se piccoli come quello di Spoleto. In ogni caso, un’ora in più fa poca differenza dopo tre anni di attesa. Ad aspettare che venga il loro turno ci sono anche gli avvocati, tanti, tutti vestiti allo stesso modo, con la classica toga forense nera.
Dev’essere una sofferenza portarla, visto il gran caldo che fa qui dentro. Naturalmente poi ci sono anche le telecamere. Non molte a dire la verità. Qualche giornalista si muove tra i vari capannelli di persone, taccuino alla mano in cerca di una battuta da carpire, di un commento da riportare. C’è anche qualche fotografo e poi ci sono sindacalisti, un paio di politici, gente comune richiamata dall’evento.
Il 24 novembre 2009 il processo per una delle più drammatiche stragi sul lavoro della recente storia italiana muove finalmente i suoi primi passi. Lo fa proprio un giorno prima del terzo anniversario della tragedia. Tre anni, meno un giorno, dopo quel 25 novembre 2006, quando quattro operai che lavoravano sopra un silos dell’oleificio Umbria Olii di Campello sul Clitunno saltarono in aria in una gigantesca esplosione che avrebbe poi scatenato un inferno di fuoco e terrore nel piccolo paese della valle umbra. «Tre anni sono un tempo giusto per finire un processo, non per iniziarlo», pensa ad alta voce Fiorella Grasselli, vedova di Giuseppe Coletti, uno dei lavoratori uccisi nell’incidente.
Accanto a lei siede un’altra vedova, Anila Todhe, moglie di Vladimir, il più giovane tra le vittime e anche l’unico straniero. Morena Sabatini invece se ne sta in piedi, un po’ in disparte come al solito. Lei era sposata con il titolare dell’azienda appaltatrice che stava effettuando i lavori sui silos della Umbria Olii, Maurizio Manili. Ha sempre preferito tenere un profilo basso, molto discreto. Scambia qualche parola soltanto con il suo avvocato e con Klaudio Demiri, l’unico sopravvissuto al disastro, un ragazzo che aveva un rapporto speciale con suo marito. La vedova di Tullio Mottini non c’è, lei in Tribunale non è mai andata nemmeno durante l’udienza preliminare. Evidentemente preferisce restare fuori dal processo e forse anche dai ricordi. Quando le porte dell’aula si riaprono e il giudice Avenoso prende il suo posto sotto la scritta «La legge è uguale per tutti » la tensione diventa palpabile.
Ad assistere all’udienza ci sono anche alcuni dipendenti dell’Umbria Olii, da sempre schierati a difesa del loro titolare, Giorgio Del Papa, oggi nelle vesti di imputato. Questa presenza innervosisce non poco i familiari delle vittime che non lo nascondono. Già altre volte si è sfiorato lo scontro, evitato solo grazie all’intervento delle forze dell’ordine. Ma ora in aula c’è silenzio. Si comincia sul serio. Il giudice chiarisce subito che prima di ogni altra cosa dovrà analizzare le richieste di costituzione di parte civile. Dovrà decidere quindi se potranno entrare nel processo, oltre alle parti «naturali», anche i soggetti istituzionali che lo hanno richiesto: Comune di Campello, Regione dell’Umbria, Ministero dell’Ambiente, Inail e poi i sindacati, Cgil, Cisl e Uil.
Tutte richieste che la difesa di Giorgio Del Papa, imputato per omicidio colposo plurimo con l’aggravante della colpa cosciente, di disastro colposo e di omissione dolosa dei mezzi di prevenzione, contesta duramente. Il giudice allora si prende una ventina di giorni per studiare le carte, ma annuncia che intende fissare un calendario di udienze molto fitto, per procedere speditamente. Tutto qui, per la prima udienza può bastare così. E mentre la piccola folla esce dall’aula del Tribunale di Spoleto, uno degli avvocati delle vedove risponde alle domande dei giornalisti. Vogliono sapere che cosa ne pensa di questo inizio, di questa prima udienza. Lui risponde seccamente: «Questi sono solo passaggi formali. Il processo vero e proprio non inizierà prima di gennaio».
Insomma, si è partiti, ma c’è ancora da attendere. Che poi è il refrain di questa storia, il tempo che scorre, mentre per quelle quattro vittime tutto resta fermo. Per il terzo anniversario della loro morte, il giorno dopo, ai cancelli della Umbria Olii viene agganciata una catena con quattro lucchetti. Su ognuno c’è il nome di uno dei lavoratori uccisi. Ma all’indomani la catena già non c’è più, è stata rimossa. Il timore è che, in un Paese dalla memoria breve come l’Italia, insieme alla catena possa presto essere rimossa e dimenticata anche quell’indignazione così forte e determinata che aveva scosso un’intera nazione un sabato di novembre del 2006.
©Alberto Castelvecchi editore srl. Tutti i diritti riservati
Tratto da Fabrizio Ricci, "Se la colpa è di chi muore", Castelvecchi editore, (pp.186, euro 15)
Fabrizio Ricci (Perugia, 1978), giornalista professionista, ha lavorato per tre anni come redattore al "Giornale dell'Umbria". Dal 2007 è responsabile dell'ufficio stampa regionale della Cgil Umbria, dal 2009 collabora con Rassegna.it. Ha scritto i libri Le città di Perugia (Era Nuova, 2005, con Marcello Catanelli) e La Perugina è storia nostra (Ediesse, 2007)