Cinesi a Milano: non solo business. E' l'ora dei senzatetto
CronacaL'ultima generazione di clochard ha gli occhi a mandorla. Anche se la Chinatown conta un imprenditore su 8, non garantisce lavoro a tutti i connazionali. Ecco perché anche chi è in Italia da anni finisce per strada
di Pamela Foti
Sono una società di imprenditori, lavorano sodo giorno e notte e si dice che riescano a comprare attività commerciali in contanti, presentandosi con valigie piene di soldi.
Qualche verità, molti luoghi comuni descrivono le Chinatown italiane.
In effetti, nella sola città di Milano, secondo la Camera di Commercio, un cinese su 8 è imprenditore. Gli italiani, solo uno su 27.
Il dossier Immigrazione Caritas Migrantes rivela che i 170 mila cittadini regolari fanno di quella cinese la quarta comunità di stranieri, dietro ai romeni (800 mila), agli albanesi (440 mila) e ai marocchini (400 mila).
E nonostante la crisi, nei primi nove mesi del 2009, le nuove attività di cinesi aperte nel capoluogo lombardo sono aumentate del 5,9% passando da 2.085 a 2.205.
“Arrivano in Italia, trovano un impiego, mangiano e dormono nello stesso posto dove lavorano - dice padre Clemente Moriggi, direttore della Fondazione Fratelli di San Francesco – Ma se perdi il lavoro, allora perdi anche la casa - E sono già tanti i cinesi che hanno chiesto di essere ospitati nel nostro dormitorio nei mesi dell’emergenza freddo”.
Perché a Milano l’ultima generazione di senzatetto viene dalla Cina.
Padre Clemente spiega che la presenza di cinesi per le strade della città è aumentata da quando si sono intensificati i controlli negli appartamenti e nelle attività commerciali concentrate in quel dedalo di vie che da Paolo Sarpi e via Messina arriva fino al Cimitero Maggiore, e da via Canonica raggiunge la zona attorno all’Arco della Pace. La Chinatown meneghina.
La Questura di Milano non è in grado di dire quanti siano i senzatetto cinesi.
E il portavoce della comunità, Angelo Ou, nega l’esistenza di questo fenomeno: “Posso solo dire che lavorano tutti. Venite a vedere in Paolo Sarpi, anche dopo che la zona è diventata area ZTL nessuno si è mosso da lì. Anzi, stanno nascendo nuove attività”.
Via Paolo Sarpi è diventata zona a traffico limitato nel novembre 2008, “per migliorare la vivibilità del quartiere” dopo le tensioni nate tra residenti italiani e cinesi nel 2007.
“Figuriamoci se lasciamo la gente al freddo - continua Ou - In ogni caso se qualcuno dorme in strada non si tratta di persone che fanno parte della comunità cinese. Altrimenti avrebbero una casa, un lavoro e una famiglia. Credo poi che molti scambino gli asiatici per cinesi”.
Ma basta fare un giro la sera nella zona attorno alla stazione Garibaldi o all’Arco della Pace per trovare gruppi di persone in cerca di un posto dove passare la notte.
Sono uomini tra i 20 e i 40 anni. Arrivano dalla Cina del sud, dell’area attorno alla città di Wenzhou, proprio come la maggior parte delle persone che vivono in Paolo Sarpi. Le loro storie sono tante, e diverse.
E' difficile capire quanti dormano per strada o nei parchi, si tratta di un fenomeno nuovo. E Milano sembra non esserne accorta.
Ma i ragazzi che incontriamo dicono che sono circa 300 i connazionali senzatetto.
“Nell’ultimo anno la loro presenza è diventata costante - spiega Magda Baietta che da 11 anni con il pulmino della Ronda della Carità e Solidarietà assiste i clochard - Non so dove stiano di giorno, forse qualcuno ancora oggi lavora in nero. Arrivano la sera, in piccoli gruppi".
Sono in Italia in media da 4 anni, non hanno il permesso di soggiorno, e in molti casi nemmeno il passaporto. Hanno sempre lavorato, ma ora si ritrovano a consultare le inserzioni sui giornali. Ma non su giornali qualsiasi.
Al prezzo di 30 centesimi comprano un foglio, simile a un volantino in formato A4 sul quale trovano annunci in vari settori. Scritti rigorosamente in cinese. Tanto basta a rivelare quanto evoluta e multiforme sia l'economia cinese in Italia.
Ma questo non è sufficiente a far rientrare tutti nel meccanismo del lavoro. Neanche in nero.
Daniele Cologna, sociologo e sinolgo dell’agenzia di ricerche Codici di Milano, spiega che “da circa 20 anni Milano rappresenta per i cinesi uno snodo fondamentale per la ricerca di occupazione. In via Rosmini, Giodano Bruno, Messina, si offrivano servizi di intermediazione a persone interessate a un impiego anche in altre città d’Italia come Reggio, Modena, le Marche o Prato”.
Ma ora Milano ha perso questo ruolo.
“Se non c’è permesso di soggiorno non c’è lavoro - dicono i ragazzi che vivono per la strada – Tutti hanno paura dei controlli”. Sia gli imprenditori italiani, sia i cinesi.
Chi non è in regola con i documenti dovrebbe essere mandato nei Cei (centri di identificazione ed espulsione) ed essere rimpatriato, ma – commenta Cologna - "non avviene né una cosa né l’altra. I centri sono strapieni. E i rimpatri in Cina non sono possibili, perché queste persone non sono in possesso del passaporto”.
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Sono una società di imprenditori, lavorano sodo giorno e notte e si dice che riescano a comprare attività commerciali in contanti, presentandosi con valigie piene di soldi.
Qualche verità, molti luoghi comuni descrivono le Chinatown italiane.
In effetti, nella sola città di Milano, secondo la Camera di Commercio, un cinese su 8 è imprenditore. Gli italiani, solo uno su 27.
Il dossier Immigrazione Caritas Migrantes rivela che i 170 mila cittadini regolari fanno di quella cinese la quarta comunità di stranieri, dietro ai romeni (800 mila), agli albanesi (440 mila) e ai marocchini (400 mila).
E nonostante la crisi, nei primi nove mesi del 2009, le nuove attività di cinesi aperte nel capoluogo lombardo sono aumentate del 5,9% passando da 2.085 a 2.205.
“Arrivano in Italia, trovano un impiego, mangiano e dormono nello stesso posto dove lavorano - dice padre Clemente Moriggi, direttore della Fondazione Fratelli di San Francesco – Ma se perdi il lavoro, allora perdi anche la casa - E sono già tanti i cinesi che hanno chiesto di essere ospitati nel nostro dormitorio nei mesi dell’emergenza freddo”.
Perché a Milano l’ultima generazione di senzatetto viene dalla Cina.
Padre Clemente spiega che la presenza di cinesi per le strade della città è aumentata da quando si sono intensificati i controlli negli appartamenti e nelle attività commerciali concentrate in quel dedalo di vie che da Paolo Sarpi e via Messina arriva fino al Cimitero Maggiore, e da via Canonica raggiunge la zona attorno all’Arco della Pace. La Chinatown meneghina.
La Questura di Milano non è in grado di dire quanti siano i senzatetto cinesi.
E il portavoce della comunità, Angelo Ou, nega l’esistenza di questo fenomeno: “Posso solo dire che lavorano tutti. Venite a vedere in Paolo Sarpi, anche dopo che la zona è diventata area ZTL nessuno si è mosso da lì. Anzi, stanno nascendo nuove attività”.
Via Paolo Sarpi è diventata zona a traffico limitato nel novembre 2008, “per migliorare la vivibilità del quartiere” dopo le tensioni nate tra residenti italiani e cinesi nel 2007.
“Figuriamoci se lasciamo la gente al freddo - continua Ou - In ogni caso se qualcuno dorme in strada non si tratta di persone che fanno parte della comunità cinese. Altrimenti avrebbero una casa, un lavoro e una famiglia. Credo poi che molti scambino gli asiatici per cinesi”.
Ma basta fare un giro la sera nella zona attorno alla stazione Garibaldi o all’Arco della Pace per trovare gruppi di persone in cerca di un posto dove passare la notte.
Sono uomini tra i 20 e i 40 anni. Arrivano dalla Cina del sud, dell’area attorno alla città di Wenzhou, proprio come la maggior parte delle persone che vivono in Paolo Sarpi. Le loro storie sono tante, e diverse.
E' difficile capire quanti dormano per strada o nei parchi, si tratta di un fenomeno nuovo. E Milano sembra non esserne accorta.
Ma i ragazzi che incontriamo dicono che sono circa 300 i connazionali senzatetto.
“Nell’ultimo anno la loro presenza è diventata costante - spiega Magda Baietta che da 11 anni con il pulmino della Ronda della Carità e Solidarietà assiste i clochard - Non so dove stiano di giorno, forse qualcuno ancora oggi lavora in nero. Arrivano la sera, in piccoli gruppi".
Sono in Italia in media da 4 anni, non hanno il permesso di soggiorno, e in molti casi nemmeno il passaporto. Hanno sempre lavorato, ma ora si ritrovano a consultare le inserzioni sui giornali. Ma non su giornali qualsiasi.
Al prezzo di 30 centesimi comprano un foglio, simile a un volantino in formato A4 sul quale trovano annunci in vari settori. Scritti rigorosamente in cinese. Tanto basta a rivelare quanto evoluta e multiforme sia l'economia cinese in Italia.
Ma questo non è sufficiente a far rientrare tutti nel meccanismo del lavoro. Neanche in nero.
Daniele Cologna, sociologo e sinolgo dell’agenzia di ricerche Codici di Milano, spiega che “da circa 20 anni Milano rappresenta per i cinesi uno snodo fondamentale per la ricerca di occupazione. In via Rosmini, Giodano Bruno, Messina, si offrivano servizi di intermediazione a persone interessate a un impiego anche in altre città d’Italia come Reggio, Modena, le Marche o Prato”.
Ma ora Milano ha perso questo ruolo.
“Se non c’è permesso di soggiorno non c’è lavoro - dicono i ragazzi che vivono per la strada – Tutti hanno paura dei controlli”. Sia gli imprenditori italiani, sia i cinesi.
Chi non è in regola con i documenti dovrebbe essere mandato nei Cei (centri di identificazione ed espulsione) ed essere rimpatriato, ma – commenta Cologna - "non avviene né una cosa né l’altra. I centri sono strapieni. E i rimpatri in Cina non sono possibili, perché queste persone non sono in possesso del passaporto”.
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