"Freetown the Tree Town", mappare gli alberi per adattarsi al clima

Prima la buona notizia: il piano di riforestazione di Freetown, capitale della Sierra Leone, ha funzionato. Poi, la cattiva: secondo alcuni studiosi questo caso virtuoso non è facilmente replicabile altrove. Ma il motivo è che il progetto “Freetown the tree town”, che ha permesso di piantare più di un milione di alberi in cinque anni, con la previsione di arrivare a 5 milioni entro il 2030 e 20 milioni entro il 2050, è nato in un contesto ben specifico: ogni anno, la città di Freetown perde circa 555 ettari di copertura forestale, l’equivalente di mezzo milione di alberi. È il risultato dell’espansione urbana, dell’edilizia informale e del disboscamento per legna da ardere, in un contesto urbano in rapida crescita. E la perdita di vegetazione ha gravi conseguenze, come l’aumento delle alluvioni e delle frane, lo stress termico nelle aree urbane, erosione costiera e minore capacità di infiltrazione dell’acqua nel suolo. L’idea di ripartire piantando alberi, su spinta della sindaca Yvonne Aki-Sawyerr Obe, è nata nel 2020 anche come risposta a un evento ben preciso: il 14 agosto 2017, durante un’intensa pioggia, una frana ha colpito l’area di Regent, alla periferia orientale della città, travolgendo abitazioni e provocando oltre 1100 morti e più di 3mila sfollati, il disastro naturale più grave nella storia recente della capitale. Le cause sono state una combinazione di fattori: piogge torrenziali, assenza di drenaggio, ma soprattutto deforestazione sistematica dei versanti collinari, accelerata dalla crescita urbana e dalla costruzione di abitazioni anche in zone ad alto rischio idrogeologico, in una città progettata per 400mila persone dove però al momento ne risiedono 1,5 milioni. In molti casi, si trattava di edifici regolari, non di insediamenti informali, resi possibili dall’apertura di nuove strade urbane in aree precedentemente verdi. A distanza di qualche anno, i pendii interessati dalla frana sono rimasti inedificati, ma la pressione urbana si è spostata altrove. Da qui la decisione del comune di puntare sulla riforestazione come misura di adattamento urbano, con l’obiettivo di stabilizzare i suoli, ridurre il rischio di disastri e migliorare la qualità ambientale complessiva. Il dato più interessante non è la quantità di alberi piantati, quanto il modello operativo partecipativo e inclusivo che lo sostiene. Il progetto è stato co-creato con le comunità locali, che hanno partecipato all’identificazione dei siti di piantumazione e poi al mantenimento della riforestazione: più di 1000 cittadini, in gran parte giovani e donne , sono stati formati e pagati per piantare, curare e monitorare digitalmente gli alberi in tutta la città. Il sistema si basa sull’app TreeTracker, dove è possibile geolocalizzare ogni albero e registrare la crescita caricando foto periodiche. Il risultato è un’operazione su vasta scala che ha già rigenerato 1500 ettari di territorio, contribuendo a raffreddare alcune zone e a ridurre il rischio di disastri climatici. Grazie alla partecipazione comunitaria, il tasso di sopravvivenza degli alberi è superiore all'80%. Il progetto è sostenuto da fondi pubblici e internazionali, tra cui la Banca Mondiale e Bloomberg Philanthropies, e ha già raccolto circa 3 milioni di dollari. Ma l’obiettivo di lungo termine è ambizioso: piantare 20 milioni di alberi entro il 2050, e finanziare parte delle operazioni attraverso la vendita di crediti di carbonio sui mercati volontari. Funziona? I dati dicono di sì. Secondo un’analisi indipendente dell’International Institute for Sustainable Development, il progetto produce benefici economici, ambientali e sociali. Ogni dollaro investito restituisce oltre due dollari in benefici alla comunità. Anche lo scenario meno ottimista, con “solo” 3,8 milioni di alberi piantati, genererebbe entro il 2050 benefici economici e sociali significativi: circa 8,2 milioni di dollari derivanti dalla creazione di occupazione locale, 5,2 milioni legati al valore economico delle vite umane salvate grazie alla riduzione di frane e alluvioni, 4,5 milioni in valore della CO₂ sequestrata, e oltre 17 milioni di dollari in danni infrastrutturali evitati. A questo si aggiungono effetti meno visibili ma misurabili, come la riduzione dell’erosione del suolo, il miglioramento della qualità dell’aria, l'aumento della biodiversità urbana, e l’abbassamento delle temperature in alcune aree cittadine. Ma non è un modello replicabile ovunque C40 Cities, il network internazionale che sostiene il progetto, lo presenta come un modello “altamente replicabile”, ma non tutti sono d’accordo. Milo Gough, docente di African Studies all’Università di Oxford, ha messo in discussione questa narrativa in un’analisi pubblicata su The Conversation nel febbraio 2025. Secondo Gough, il successo del progetto dipende da condizioni storiche, geografiche e politiche molto specifiche, che non possono essere facilmente esportate altrove. Gough ricorda, ad esempio, che gli alberi non sono elementi neutri: in molte culture africane, hanno significati spirituali e sociali profondi. Durante l’epoca coloniale, proprio attraverso il tree planting venne imposto a Freetown un modello urbano europeo, che cancellava le pratiche spaziali locali. Anche oggi, sostiene, c’è il rischio che soluzioni tecniche come il riforestamento urbano diventino strumenti di “green capitalism”, funzionali più a compensare le emissioni di paesi ricchi che a trasformare strutturalmente le città africane. “Gli schemi di piantumazione di alberi non devono essere considerati un bene sociale generico”, scrive Gough, e gli alberi sono intrecciati a strutture di potere.” Un’altra preoccupazione riguarda il finanziamento tramite il mercato del carbonio: vendere crediti di assorbimento di CO₂ a imprese e paesi inquinanti può alimentare una logica in cui chi emette continua a farlo, delegando ad altri la compensazione. È una critica frequente ai mercati volontari del carbonio: più che ridurre le emissioni, rischiano di rimandarne la vera eliminazione. Ma nonostante le critiche il caso di Freetown mostra cosa può accadere quando una città prova a trasformare le proprie politiche ambientali coinvolgendo chi ci vive, distribuendo risorse e adottando strumenti digitali accessibili. La sfida, oggi, è garantire che i benefici restino in mano alle comunità e non siano sacrificati alle logiche speculative dei mercati del carbonio.

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