Lavoro, donne sempre escluse dai cda. Nonostante la legge

Economia
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Quote rosa? I dati Istat e della Fondazione Bellisario dicono che in Italia il lavoro e la carriera non sono una prerogativa femminile. Del Boca: "Se il 60% delle italiane lavorasse, avremmo un Pil più alto del 7%"

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di Isabella Fantigrossi

Poche donne ai vertici delle società quotate. E quasi una donna su due inattiva, cioè né occupata né in cerca di lavoro. Una fotografia allarmante dell’Italia che arriva accostando i dati della Fondazione Bellisario, che ha voluto calcolare la percentuale femminile nei consigli di amministrazione a pochi mesi dall’entrata in vigore della legge sulle quote rosa, e i numeri Istat sull’occupazione di settembre 2011. Tutte cifre che, se lette insieme, compongono un puzzle che lascia sbalorditi: nel nostro Paese le donne non solo sono escluse dai posti di comando ma oggi sono pure in gran parte fuori dal mercato del lavoro. Una situazione non certo conveniente dal punto di vista economico.

Fuori dai consigli di amministrazione – Dal 28 luglio 2012, secondo la legge 120/2011, le società quotate in Borsa e le partecipate dalle pubbliche amministrazioni dovranno assegnare il 20% dei posti nei propri consigli di amministrazione alle donne. Visto che la legge sulle quote rosa è stata approvata a luglio 2011, le società interessate si sarebbero già dovute mettere avanti, aprendo le porte dei propri cda. Ma così non è. Dall’inizio dell’anno solo 21 società hanno assegnato 24 poltrone a donne. E ad oggi, secondo la Fondazione Bellisario, su 272 quotate il 93,1% dei 2837 posti da consigliere è assegnato a uomini, solo il 6,9% a donne. E i dettagli sono ancora più sconfortanti: nei cda di 139 società non c’è neanche una donna, in 86 ce n’è una, in 37 due, in 8 ce ne sono tre e solo in due società (Mediobanca e Milano Assicurazioni) ce ne sono 4. Ma il 47,5% dei membri femminili dei consigli di amministrazione ha legami familiari con la proprietà: "Significa che per le outsider entrare in un consiglio è ancora più difficile", racconta Lella Golfo, presidente della Fondazione Bellisario e ideatrice della legge sulle quote rosa.
Non va meglio nelle 2076 società controllate dalle pubbliche amministrazioni, cioè quelle in cui comuni, provincie, regioni e altri enti locali detengono più del 50%. Secondo una stima della Fondazione, su circa 13.500 membri dei cda solo il 4% sono donne. Tutti questi "sono numeri che sottolineano quanto sia ancora difficile per le donne riuscire ad accedere a ruoli di riferimento in ambito economico", dice Golfo. Ma un Paese che "vuole essere competitivo non può rinunciare al 50% delle sue risorse umane e di conoscenza". Eppure, continua Golfo, la legge sulle quote rosa è già un passo avanti e "oggi le società quotate con il maggior numero di donne sono nei settori delle nuove tecnologie, hanno proprietà diffusa o controllo straniero e un cda più giovane. Sono, insomma, imprese moderne e internazionali".

Donne inattive – Dalle stime dell’Istat, invece, emerge che a settembre 2011 il tasso di inattività femminile arriva al 48,9%, mentre quello maschile si attesta al 26,9%. Vuol dire che quasi una donna su due non rientra né nella fascia degli occupati né in quella dei disoccupati perché non lavora né è in cerca di un posto. "Sono cifre allarmanti", dice Daniela Del Boca, docente di Economia politica all’Università di Torino, collaboratrice della Voce.info e autrice con Alessandro Rosina di "Famiglie sole". "E’ dal 2000 che l’occupazione femminile è in calo ma ora la situazione è grave. Le donne non cercano lavoro perché pensano che sia già troppo difficile per gli uomini, figuriamoci per loro. Oggi sono totalmente scoraggiate e avvilite. E il rischio è che ora le donne smettano pure di studiare". Ma far crescere l’occupazione femminile è molto conveniente: "Non solo perché più donne lavorano, più tasse si pagano. Ma anche perché una donna occupata ha bisogno di una persona che la sostituisca nelle faccende di casa. Cioè ogni lavoratrice crea più occupazione di un lavoratore uomo. Tanto è vero che, secondo la Banca d’Italia, se il 60% delle donne italiane lavorasse, come è richiesto dall’Unione europea", continua Del Boca, "avremmo un Pil più alto del 7%. Ma il fatto che il Paese ancora oggi non lo capisca è una scelta politica miope. Basta vedere che sono anni che la parola famiglia è fuori dal dibattito politico. Bisogna invece affrontare il problema con vari strumenti, come quote rosa o alcuni tipi di incentivi".

Una riforma a costo zero - Una soluzione possibile l'hanno indicata Tito Boeri e Pietro Garibaldi in "Riforme a costo zero", appena uscito per Chiarelettere (leggine un estratto). Secondo i due economisti, per far ripartire il Paese bisogna incentivare a lavorare anche chi ha minori possibilità di guadagno, cioè le donne. Per esempio sostituendo la detrazione fiscale per il coniuge e gli altri familiari a carico con l’introduzione di un credito di imposta per le retribuzioni più basse della famiglia. Con questo tipo di beneficio fiscale il lavoro femminile aumenterebbe.

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