La Corte suprema ha respinto la tesi della difesa, che chiedeva di applicare la scriminante dello "stato di necessità", confermando la sussistenza del reato di furto, i giudici hanno però annullato la sentenza di condanna ordinando un nuovo processo per valutare l'ipotesi del "fatto di lieve entità"
Rubare in supermercato per sfamare la famiglia non è permesso, soprattutto se ci sono "alternative lecite" come il ricorso agli aiuti di una parrocchia. È un principio ribadito dalla Cassazione nell'ambito del caso di una coppia del Novarese, marito e moglie, di 51 e 38 anni, con figli, entrambi italiani, processati con l'accusa di avere sottratto da un centro commerciale di Trecate cinque porzioni di parmigiano, due confezioni di shampoo e una di deodorante.
La vicenda processuale
I coniugi erano stati condannati dalla Corte d'appello di Torino, nel 2020, a due mesi di reclusione con la condizionale nonostante le gravi difficoltà economiche, testimoniate anche da un sacerdote, in cui versava il nucleo familiare dopo la perdita del lavoro da parte dell'uomo. La Cassazione ha respinto la tesi della difesa, che chiedeva di applicare la scriminante dello "stato di necessità", confermando dunque la sussistenza del reato di furto, ha però annullato la sentenza, ordinando un nuovo passaggio davanti ai giudici piemontesi perché valutino l'ipotesi del "fatto di lieve entità” (il valore dei prodotti ammontava a circa 70 euro). Gli ermellini hanno osservato che nel caso dei novaresi non è stato dimostrato un "pericolo inevitabile per la salute" e che, anzi, è emerso che, se è vero che lo stato di indigenza era "reale", è altrettanto vero che "la famiglia era seguita dall'attenzione delle strutture sociali: anzitutto la parrocchia, e, successivamente, l'assistenza sociale, con l'ammissione al progetto 'borsa per la spesa'".