Il Cloud nell’era post Coronavirus: intervista a Stefano Cecconi, AD di Aruba

Tecnologia

Aldo Agostinelli

Parla l'amministratore delegato di Aruba, tra le prime società in Italia per fornitura di servizi IT e più grande cloud provider italiano

Mai come durante la pandemia di Coronavirus, in Italia il cloud ha mostrato la sua importanza strategica per mettere al passo le aziende con la trasformazione digitale e le nuove modalità di lavoro in remoto, alle prese tra lavoro agile e smart working. Ma il nostro Paese deve ancora colmare pesanti ritardi: secondo il Digital Economy and Society Index 2020 (DESI) stilato dalla Commissione europea, che valuta una serie di parametri per misurare il livello di digitalizzazione dei 28 Stati membri, l’Italia è al terzultimo posto per uso delle tecnologie digitali da parte delle imprese.

 

In piena emergenza e con palesi lacune organizzative, il cloud si è dunque rivelato una risorsa fondamentale per traghettare le aziende fuori dall’impasse. 

 

“Il ruolo fondamentale svolto dai servizi cloud è stato quello di fattore abilitante per la sostanziale riorganizzazione improvvisa ed urgente che ha dovuto affrontare il sistema Paese. Se avessimo dovuto affrontare tutto questo con i sistemi e i concetti IT tradizionali precedenti il cloud, il Paese sarebbe rimasto sostanzialmente bloccato per settimane o mesi”, dice Stefano Cecconi, amministratore delegato di Aruba, tra le società prime in Italia per fornitura di servizi IT e più grande cloud provider italiano.

Che tipo di funzione hanno svolto i servizi di cloud?

“La natura dinamica del cloud ha permesso a tante aziende sia di espandere che di ridurre la propria infrastruttura IT per rispondere alle mutevoli condizioni del proprio business e ha anche consentito a chi ancora non aveva servizi in cloud di eseguire rapidamente e senza investimenti sostanziali il setup degli strumenti che poi si sono rivelati essenziali per continuare a lavorare”.

Il mercato del Cloud o dei servizi inerenti al Cloud è in linea o indietro rispetto alle medie europee? 

“Nelle varie classifiche e studi in merito l’Italia purtroppo risulta molto spesso indietro rispetto alle medie europee. Probabilmente il motivo principale è da ricercarsi nella composizione del tessuto produttivo del nostro paese, fatto principalmente da PMI. Per le piccole imprese infatti non sempre risulta evidente il vantaggio che si può trarre dalla digital transformation e gli investimenti in tal senso non hanno per lungo tempo rappresentato per loro una priorità. In secondo luogo scontiamo anche un certo gap in termini di cultura digitale che riguarda il mondo dell’istruzione. Infine la diffusione ancora non sufficiente dei servizi di connettività a banda ultralarga ha reso sicuramente più lento il processo di trasformazione digitale, ma negli ultimi tempi sono stati fatti dei passi avanti”. 

Quali sono i settori che durante la crisi hanno maggiormente spinto verso un adeguamento digitale?

“I settori dove la concorrenza è più globale hanno sentito più forte l’esigenza di adeguarsi ed innovare il proprio modo di lavorare, di vendere e interagire con i clienti. Le imprese che invece lavorano in settori che per loro natura sono un po' più chiusi o meno esposti ad un certo tipo di concorrenza si sono in un certo senso potute permettere di aspettare un po'. Ora è chiaro a tutti l’importanza di accelerare e, da questo punto di vista, è stato compiuto in pochi mesi un balzo in avanti che altrimenti avrebbe richiesto degli anni”.

Il cloud è ormai prioritario per la crescita del paese e del sistema economico, ma c'è una questione di sicurezza (nazionale e intellettuale) non trascurabile: crede che il governo dovrebbe lavorare per sviluppare un progetto di cloud diffuso, anche pubblico, per avvicinare le PMI ed evitare che si rivolgano a servizi totalmente stranieri?

 

“Ritengo che la questione della sicurezza e delle tutele che la legge deve garantire a tutti gli utilizzatori dei servizi prescinda dalla dimensione dell’azienda. Riguarda quindi sia le PMI che le grandi aziende ed anche e soprattutto la Pubblica Amministrazione. Non credo che la strada possa essere quella del “divieto” di utilizzo di servizi stranieri, ma piuttosto quella di fare in modo che qualunque servizio erogato a cittadini italiani o europei rispetti le stesse leggi e gli stessi principi. Benché in Italia da sempre ci siano aziende che rispondono in modo esaustivo alle esigenze digitali di privati, PMI e grandi aziende, in alcuni contesti emerge uno sbilanciamento: se sul nostro mercato siamo giustamente tenuti al rispetto delle regole nazionali ed europee, gli operatori extra europei, per sostenere i loro modelli fanno leva anche sulle norme dei paesi dove hanno sede e questo ha reso più difficile la concorrenza da parte dell’operatore europeo che in alcuni contesti si trova addirittura svantaggiato, non solo sul piano degli obblighi ma anche su quello fiscale. Penso che i principi europei e ciò che si sta facendo a livello generale in termini di regole per il cloud (come ad esempio il codice di condotta del CISPE, del quale Aruba è membro fondatore) vadano nella direzione giusta, ma è necessario accelerare, in modo da giocare tutti con le stesse regole. Per quanto riguarda il fabbisogno della Pubblica Amministrazione italiana è sicuramente interessante esplorare la possibilità della creazione di una sinergia, eventualmente anche pubblico-privata, per rispondere in modo mirato al fabbisogno, tutelando in qualche modo anche la “sovranità digitale” del Paese sui propri dati e sui servizi critici ed essenziali per il funzionamento dello Stato stesso”.

Per il riavvio nel post-covid, cosa state suggerendo ai vostri clienti?

 

“Le aziende (noi compresi) hanno toccato con mano i concetti di continuità operativa e resilienza, sia da un punto di vista informatico che di business. Avere avuto un approccio digitale alla propria attività ha consentito a molte aziende di non accusare (o quasi) il momento di lockdown. E su questo la tecnologia si è dimostrata un partner essenziale. Le persone e le aziende si sono avvicinate in maniera molto rapida ad alcune tecnologie già diffuse quali la firma digitale, la PEC, l’e-commerce e il cloud nelle sue varie forme. Ai nostri clienti stiamo consigliando di consolidare il loro avvicinamento al digitale e continuare ad esplorare le ulteriori possibilità che offre per la loro azienda”. 

E riguardo ai servizi?

 

“Si è svegliato un grande interesse verso i servizi digitali e le nostre iniziative vanno nell’ottica di ridurre la distanza fra le aziende, gli utenti e la tecnologia. Da una parte stiamo ampliando la nostra offerta di soluzioni as-a-service, affinché risulti sempre più immediato l’utilizzo di software nel web e in cloud; dall’altra parte lavoriamo sulla formazione e sulla promozione della cultura digitale, perché per adottare determinati paradigmi serve un cambiamento culturale: mettiamo a disposizione canali per diventare autonomi nella costruzione della propria presenza online (tramite guide, tutorial, webinar e supporto formativo) oppure offriamo il supporto dei nostri partner Aruba Business che lavorano sul territorio e della nostra divisione Aruba Enterprise, che sviluppa soluzioni tecnologiche altamente personalizzate. Un’eventuale nuova chiusura ci deve trovare preparati e soprattutto più digitali di ieri”.

 

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