OpenAI spinge sulla robotica: all’AGI servirà un corpo?

Negli ultimi mesi OpenAI ha intensificato gli sforzi nel campo della robotica, aprendo decine di posizioni e reclutando figure di primo piano con esperienza sia nel design hardware che nell’integrazione di sistemi complessi. Già a gennaio scorso era in corso la formazione di una squadra dedicata a progettare componenti meccaniche, sensori e attuatori mentre nell’autunno precedente l’azienda aveva arruolato Caitlin Kalinowski, ex responsabile hardware AR/VR di Meta, in particolare di Oculus, con il compito di guidare questo nuovo dipartimento aziendale, dalle parti di Optimus di Tesla o della mitica Boston Dynamics. Si tratta di una svolta significativa per un’azienda nata come laboratorio di ricerca software e che ora, con sempre maggiore decisione, guarda al mondo fisico. Sguardo agli androidi I profili assunti e i progetti in corso mostrano che il focus non è soltanto su bracci meccanici o piattaforme industriali ma anche su macchine robotiche che ricordano almeno in parte il corpo umano. Insomma, sugli androidi e sugli umanoidi. Alcuni ingegneri e ricercatori arrivati negli ultimi mesi lavorano su robot con due arti manipolatori, magari su ruote invece che su gambe, capaci di muoversi e interagire in ambienti domestici o lavorativi. È il caso di Chengshu Li, ricercatore proveniente da Stanford e in passato già al lavoro in Google DeepMind e Nvidia, che si è unito a OpenAI a giugno portando con sé studi su criteri di valutazione per robot umanoidi in compiti quotidiani. Nelle offerte di lavoro compaiono riferimenti a sistemi di teleoperazione e simulazione, a software specializzati come Nvidia Isaac, e persino a ipotesi di produzione su larga scala che vanno oltre l’ambito sperimentale di laboratorio. All'Agi servirà un corpo? L’intento dichiarato sembrerebbe dunque quello di costruire, nel medio periodo, robot generalisti, capaci di operare in contesti variabili e non rigidamente controllati. OpenAI sottolinea infatti nei propri annunci, quasi a mettere nero su bianco la propria missione per i prossimi anni, che l’AGI non potrà limitarsi alla sola dimensione linguistica o computazionale: dovrà saper percepire e manipolare il mondo, muoversi in spazi complessi, gestire interazioni fisiche raffinate. Per questo la robotica è vista come una parte integrante del percorso verso un’autentica – ma per ora lontanissima - intelligenza artificiale generale. Resta ancora incerto se l’azienda deciderà di sviluppare un proprio hardware da zero o se punterà su partnership con realtà già attive ma i segnali raccolti nei mesi scorsi fanno pensare a un approccio ibrido, in cui la prototipazione interna si affiancherà – anzi, si sta già affiancando - a collaborazioni con produttori esterni. Il contesto competitivo è denso: startup come Figure, Agility e Apptronik hanno raccolto centinaia di milioni di dollari per sviluppare umanoidi, mentre Tesla e Google stanno seguendo traiettorie parallele e spesso di gran successo comunicativo. L’hype come sempre in questi ambiti è forte ma gli ostacoli rimangono duri: dalla locomozione stabile alla percezione affidabile in ambienti disordinati fino ai costi di produzione e manutenzione, specie su scala industriale o comunque elevata. Eppure è proprio questa frontiera a costituire, secondo molti, la chiave per passare dall’IA specializzata a una forma di intelligenza più flessibile e completa. La costruzione di androidi e umanoidi sarà dunque una tappa esiziale dell’AGI? In fondo, verrebbe da pensare che senza un corpo che sperimenti attrito, forza, tatto, equilibrio e altre dimensioni che appartengono alla sensibilità di un essere vivente un’intelligenza artificiale per quanto potente rischi di restare confinata in una dimensione simulata, priva dei feedback necessari a sviluppare una qualche forma di consapevolezza del reale – per quanto, finora, l’AI non abbia alcuna consapevolezza e sia piuttosto, come direbbe qualcuno, ancora al livello di un formidabile pappagallo stocastico. La robotica potrebbe però diventare, come d’altronde già visto in parte in questi anni, una specie di palestra dove un algoritmo può imparare non solo a “pensare” – di nuovo, le AI non pensano naturalmente ma fanno statistica ad altissimi livelli - ma anche ad “agire”, colmando quel divario che separa i modelli linguistici attuali da una vera intelligenza generale. O aspirante tale. Da un lato potremmo avere presto fra noi dei robot capaci di supportarci in compiti domestici, industriali o sanitari – ben oltre quanto già vediamo di avveniristico in giro per il mondo - accelerando l’impatto sociale positivo dell’IA. In altre parole, rendendocela familiare. Dall’altro rimarrebbero aperti alcuni ambiti scontati ma monterebbero anche le implicazioni etiche di macchine che non solo parlano ma agiscono in autonomia.

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Simone Cosimi