Agi, la macchina che pensa: sogno tecnologico o rischio ideologico?

Se il regno delle nuove tecnologie fosse il Medioevo, di certo l’Intelligenza artificiale generale sarebbe il suo Santo Graal. L’AGI è il miraggio e l’ossessione della ricerca nel campo delle IA: un sistema – o, meglio, un livello di sviluppo – capace non solo di svolgere compiti specifici, come già riescono a fare chatbot e agenti, ma di comprendere, apprendere e ragionare allo stesso grado delle capacità di un essere umano. Nei fatti, insomma, una macchina “generalista” dotata di intelligenza flessibile, senso comune e capacità di adattamento che finora rimangono appannaggio della specie homo sapiens. Ma secondo un’inchiesta recentemente pubblicata dal New York Times, siamo ancora lontani da quel traguardo, nonostante l'entusiasmo che circonda il settore. Un entusiasmo spesso difficilmente contenibile, va detto; l’AGI è da tempo al centro dei discorsi degli attori protagonisti della Silicon Valley: Sam Altman, Ceo di OpenAI, ha indicato più volte la missione della sua azienda nel riuscire a «creare un’AGI sicura e utile per l’umanità». DeepMind, la divisione IA di Google, nel 2023 ha annunciato lo sviluppo di Gemini – recentemente approdato a un nuovo livello avveniristico dell’IA generativa – definendolo un passo deciso verso sistemi capaci di replicare l’intelligenza umana. Eppure la realtà, spiegano molti esperti sentiti dal quotidiano statunitense, è molto più complessa e sfaccettata. Le IA della nostra epoca sono infatti modelli statistici predittivi, che risultano sì estremamente sofisticati, ma ancora del tutto privi di coscienza, comprensione o intenzionalità. «La maggior parte di questi sistemi imita il linguaggio umano senza comprenderlo», si legge nell’articolo del New York Times. In effetti, gli stessi modelli più avanzati oggi disponibili – come GPT-4 o Gemini 1.5 – si basano su correlazioni tra parole e frasi apprese da vasti corpus testuali, e proprio per questo non hanno alcuna forma di conoscenza intrinseca o diretta del mondo. In altre parole: le nostre IA non sono “intelligenti” in senso stretto perché lavorano de relato. Melanie Mitchell, ricercatrice presso il Santa Fe Institute, ha osservato che l'approccio attuale all'AGI differisce sul piano sostanziale dal modo in cui gli esseri umani apprendono. I modelli linguistici di grandi dimensioni vengono addestrati con enormi quantità di dati in un periodo relativamente breve, a differenza dell'apprendimento umano, che invece prende forma nel corso di anni di esperienza e riflessione. Geoffrey Hinton, uno dei padri nobili dell’IA e vincitore del premio Nobel nel 2024, ha comunque espresso preoccupazioni riguardo ai rischi associati all'AGI. In un'intervista del 2023, ha dichiarato che «c'è una probabilità del 10-20% che [l'IA] possa portare a qualcosa di veramente cattivo». Ma non tutti la pensano allo stesso modo, ovviamente: Yann LeCun, capo divisione dell'IA dalle parti di Meta e figura centrale nel panorama del settore, ha affermato che le attuali IA sono «incredibilmente limitate» e che l'AGI richiederà nuove architetture cognitive, del tutto diverse da quelle che utilizziamo oggi. È importante notare che il dibattito non si gioca solo su un piano tecnico, ma anche su uno etico e politico. Un editoriale di Nature della fine dell’anno scorso ammoniva sul rischio che il concetto di un’Intelligenza artificiale generale diventi più una leva di marketing che un obiettivo da raggiungere in campo scientifico, sostituendo alle cautele del progresso le logiche dell’hype. Secondo la sociologa Danah Boyd , non a caso, «il termine “AGI” viene spesso usato per attrarre investimenti e legittimare strategie industriali, più che per descrivere una tecnologia esistente o imminente». Insomma: mentre l’intelligenza artificiale continua a fare passi avanti e a trovare impieghi cruciali in settori che variano dalla medicina, all’energia, all’istruzione e alla finanza, il sogno e incubo dell’AGI resta per ora confinato ai laboratori e ai dibattiti teorici. Una sfida affascinante, certamente, ma che per essere vinta dovrà passare non soltanto da nuovi algoritmi, ma anzitutto da una nuova comprensione della mente umana.

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