Gli assistenti vocali ci ascoltano o ci spiano?

Nelle prime ore del 2025, a poca distanza dai pranzi e le cene delle feste, una notizia ha scosso il mondo della tecnologia e del diritto alla privacy: il 3 gennaio Apple ha deciso di procedere con un accordo extra-giudiziale in una causa intentata da un gruppo di consumatori contro Siri, l’assistente vocale di casa a Cupertino. Siri è una delle voci più note del panorama degli assistenti tecnologici, visti i milioni di device Apple che operano a ogni latitudine del globo: attivabile con un semplice «ehi Siri», permette di sbrigare operazioni semplici come fissare appuntamenti e promemoria per l’utente, oppure inoltrarsi in task più complessi come accendere e spegnere elettrodomestici connessi alla Rete, o persino – negli Stati Uniti – acquistare biglietti del cinema. Se le stime più recenti parlano di un miliardo e mezzo di utilizzatori di iPhone nel mondo, ecco che la voce del maggiordomo digitale Apple diventa a tutti gli effetti una presenza centrale nella nostra quotidianità iperconnessa. Secondo la causa intentata in California, che in queste ore ha appunto raggiunto un accordo di risarcimento registrato a Oakland, a due passi da San Francisco, per più di un decennio Apple avrebbe utilizzato Siri per spiare i suoi utenti, registrando le loro conversazioni e la loro voce anche in assenza di comandi vocali e condividendo con gli inserzionisti interessati le informazioni carpite dall’attività illecita. Apple, che ha costruito la sua reputazione di multinazionale del tech attenta alla privacy, e con la presidenza di Tim Cook l’ha resa il suo primo cavallo di battaglia, definendola "un diritto umano fondamentale", si è difesa dicendo che "Siri è stata progettata per proteggere la privacy degli utenti fin dall'inizio", e che i suoi dati «non sono mai stati utilizzati per creare profilazioni di marketing e non sono mai stati venduti a nessuno per nessun motivo». Nel 2019, dopo un’inchiesta del Guardian arrivata in concomitanza con l’avvio della causa legale oggetto del risarcimento, aveva dichiarato di aver aggiornato le funzionalità dell’assistente, scusandosi con i clienti. Fatto sta che l’azienda ora ha accettato di pagare 95 milioni di dollari, pur senza ammettere direttamente di aver spiato gli utenti di iPhone, iPad e gli altri prodotti di Cupertino: una cifra irrisoria non solo rispetto ai 705 miliardi di dollari che l’azienda ha registrato dal settembre 2014, la data di inizio dell’uso illecito del software, ma anche rispetto a quella che Apple avrebbe potuto trovarsi costretta a pagare se la materia fosse andata a processo e la multinazionale fosse stata trovata colpevole di violazione delle leggi sulle intercettazioni e sulla privacy. Rimane, ovviamente, la domanda più ampia e preoccupante: ma allora è vero che gli assistenti vocali degli oggetti che teniamo in tasca ci spiano? La risposta non è così semplice, anche perché Amazon, Google e la stessa Apple hanno aggiornato – e aggiornano – regolarmente i loro software: quel che è noto, però, è che Siri, Alexa e gli altri registrano i suoni ambientali in attesa della wake word, cioè la frase con cui vengono “svegliati”, appunto, e si attivano. Poi l’iter varia: Apple promette che i dati personali rimangono sempre nel device dell’utilizzatore, e quando ne escono – ad esempio per fare ricerche su Internet – assumono una forma anonimizzata. Ma se fosse da considerare vero che per dieci anni la multinazionale più privacy-oriented del mondo tecnologico si è presa gioco dei suoi utenti, origliando le loro frasi private, allora certamente sarebbe venuto il momento di dubitare di ogni rassicurazione.

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