Quel voto che cambiò l’Italia: perché il 2 giugno ci parla ancora

A destra la corona reale con lo scudo sabaudo; a sinistra l’Italia turrita, un volto femminile sovrastato da una corona merlata, simbolo delle città italiane: due contrassegni individuati per rendere comprensibile a tutti la scelta della forma istituzionale. A fare da sfondo per entrambi il profilo geografico della Penisola. Così si presentava la scheda elettorale in quel giorno di primavera inoltrata caldo e soleggiato al Sud e freddo e piovoso al Nord. Nelle lunghe file davanti ai seggi, formatesi già alle prime ore del mattino, tante italiane in attesa di esercitare il proprio diritto: fu il primo voto su scala nazionale a cui furono ammesse le donne. Il referendum del 2 e 3 giugno del 1946 segnò il trionfo del suffragio universale e la vittoria della forma repubblicana. Di lì a pochi giorni Umberto II, l’ultimo sovrano d’Italia, partì in esilio con la famiglia alla volta del Portogallo per non fare più ritorno. Si votò contestualmente per eleggere l’Assemblea costituente che avrebbe steso la carta dei principi e dei valori del nuovo Stato democratico, dopo vent’anni di fascismo, la Seconda guerra mondiale e una guerra civile che aveva lacerato il Paese. A quasi ottant’anni di distanza Umberto Gentiloni Silveri, professore di Storia contemporanea dell'Università La Sapienza di Roma, con un saggio “2 giugno” ritorna su questa data, proclamata festa nazionale nel ‘49, e sul significato che ha assunto l'anniversario della fondazione della Repubblica attraverso i decenni. Perché ha sentito l'esigenza di scrivere un libro sul 2 giugno? Da una parte l'analisi della complessità di questa data si era un po' persa nel tempo e dall'altra c'è il rischio che si smarrisca la considerazione di quanto importante sia stata la vicenda del 2 giugno. Noi italiani siamo bravissimi a criticare il nostro percorso, a mettere in evidenza le ombre, le cose che non hanno funzionato. Il 2 giugno invece fu una giornata straordinaria per i risultati, per il contesto, per la qualità con cui si svolse la consultazione, per il fatto che insieme a Monarchia e Repubblica si elesse una Costituente. È una bella pagina, quindi recuperarne il significato mi sembrava importante anche a fronte delle difficoltà delle democrazie nel mondo di oggi. Come è cambiata la Festa della Repubblica nei quasi 80 anni di democrazia che abbiamo alle spalle? Ci sono state varie fasi. È stata una festa, poi una data ricorrente, in un certo periodo ingessata nell'ufficialità delle celebrazioni, in seguito è stata addirittura soppressa, cancellata, eliminata dal calendario civile fino al momento della riscoperta, quando fu rimessa al centro, soprattutto durante la presidenza Ciampi attraverso un'operazione che cercava di fare del 2 giugno una risposta ai tentativi di separatismo, di divisione, di lacerazione dell'unità geografica e politica del Paese. Ha avuto delle vicende alterne e in alcune fasi il 2 giugno è stato uno specchio per studiare più in generale la storia d'Italia, partendo da un presupposto: l’approccio a questo anniversario ci racconta che tipo di rapporto c’è tra chi è al potere e le origini della Repubblica, quindi la fase costituente, il momento in cui le masse hanno fatto il loro ingresso nel sistema politico-democratico. E adesso in che fase siamo? Stiamo attraversando una fase incerta, direi sospesa. Da una parte la Costituzione c'è, è in vigore, rimane un punto di riferimento irrinunciabile, nonostante le debolezze, le critiche, le prese di distanza. Dall'altra, però, la partecipazione, basta vedere i dati elettorali, è scesa progressivamente e con questa perdita di interesse per il voto si è perso anche il senso della condivisione di un percorso, o meglio, come dicevano i costituenti, di un orizzonte comune, di un destino comune. Questo elemento si è progressivamente affievolito e speriamo che ci saranno le forze, le ragioni e le occasioni per poter recuperare parte di quell'ispirazione iniziale. A questo dovrebbe servire la Festa del 2 giugno. Il 54% votò per la Repubblica, ma il Paese era spaccato. La monarchia si era macchiata di una serie di atti e di scelte particolarmente impegnative, per non dire vergognose a cominciare dalla firma delle leggi razziali del ’38 per arrivare poi all'atteggiamento tenuto attorno all'8 settembre, all'Armistizio, quando senza dare indicazioni, i reali si misero in sicurezza, dimostrando di essere interessati solo alla propria sorte personale. Per questo molti erano in disaccordo con la consultazione popolare che avrebbe dato ulteriore credito a una monarchia sfiduciata, sottoponendo al voto le due forme istituzionali. I reali sentivano di essere stati traditi dagli alleati e tentarono di opporsi al corso degli eventi. Erano però sprofondati in una crisi irreversibile che annullò anche quanto di buono i re avevano fatto nel passato: nonostante le debolezze, il sovrano aveva fornito un quadro di riferimento unitario, penso soprattutto al Risorgimento. Tuttavia, se il capitolo della monarchia si chiuse, al di là degli errori commessi, fu soprattutto per la forza della democrazia delle masse, dell'ingresso delle masse nei processi decisionali. Come si riassorbì quel quasi 46% che votò contro la Repubblica? Il voto è molto più articolato di quanto non sembri, cioè nelle zone a maggioranza monarchica ci furono anche sacche di voto repubblicano e soprattutto nelle zone dove sembrerebbe vincere l'opzione monarchica si registrarono significativi consensi nei confronti della Repubblica. Questo per dire che poi c'è anche una questione di composizione demografica del Paese, ma il punto è: le due Italie si sono ritrovate, la spaccatura si è riassorbita? Sì, quasi subito, direi. In fondo la componente monarchica, antirepubblicana e anticostituzionale ha rappresentato una minoranza marginale che ha avuto un ruolo in occasione delle prime elezioni, nei primi decenni, ma non c'è mai stata una spinta significativa tale da rendere davvero necessario quell'articolo 139 che stabilisce che la forma repubblicana non possa essere oggetto di revisione costituzionale. In fin dei conti chi ha militato “dall'altra parte” ed è stato sconfitto si è poi ritrovato nel destino comune di cui parlavamo prima, eccetto frange marginali ed estreme che hanno sfidato apertamente la Costituzione. La Carta costituzionale è stata una garanzia per tutti, vincitori e vinti, tant'è che successivamente gli eredi di parti che allora erano state sconfitte si sono trovate nel corso dei decenni della nostra storia repubblicana a occupare anche posizioni di privilegio e poi di potere, cosa che accade anche oggi tra l'altro. C'è un elemento che diventa sempre più preponderante nel corso dei decenni: quello militare. Già nel ‘48 ci fu una prima parata. In questi tempi in cui la pace è un’esigenza sempre più dirimente, non posso non chiederle perché il Paese che ha nella Costituzione il principio del ripudio della guerra celebri la fondazione della repubblica con la sfilata delle forze armate? È una domanda tutt'altro che banale. Fin da subito si delinea l’aspetto della parata militare proprio perché dobbiamo pensare che l’Italia si lasciava il fascismo alle spalle e l'esercito aveva avuto un ruolo significativo nel rapporto con Mussolini, nella costruzione e nel rafforzamento del suo potere. La scelta di inserire l’esercito nelle celebrazioni era un tentativo di democratizzare anche le forze armate, porle al centro di un momento di festa e di rilancio della democrazia. Questo è stato un tratto importante, poi però sono state sollevate anche critiche da mondi e da ambiti diversi. Da una parte è cresciuta col tempo l'idea che tra le forze armate ci fossero settori deviati, con riferimento ad apparati dello Stato che non si comportavano democraticamente. Una critica che fu forte negli anni Sessanta e Settanta, anni in cui emerse quella che viene definita la "strategia della tensione". Dall'altro c'è una critica di altro segno che dice sostanzialmente: non abbiamo bisogno dell'esercito, possiamo celebrare la Repubblica nel modo pacifico richiamando il già citato articolo 11 della Costituzione. Non è un caso se il recupero del 2 giugno fu portato avanti associando e affiancando alle tradizionali forze armate i gruppi di servizio civile, le missioni di pace, le scolaresche. Fu un tentativo di tenere insieme tutto. Del resto, lo stesso presidente Ciampi nei suoi ragionamenti e nelle sue riflessioni, come testimonia anche il suo diario nei giorni in cui venne reinserita la festa, si preoccupò di evitare che fosse troppo forte l'impatto militarizzato della parata, quindi cercò di dare al 2 giugno un quadro di riferimento diverso. L'impressione è che per vari motivi, tra cui la vicinanza nel calendario civile con il 25 aprile, ci siano due ricorrenze in contrapposizione: il 25 aprile la festa della sinistra e il 2 giugno la festa della destra. Lei riconosce questa semplificazione? C'è stata senz'altro questa semplificazione, con l’attribuzione di significati divergenti a questi anniversari, perché le date di per sé, ricordiamo, non dicono nulla se non vengono declinate attraverso un significato che non è mai neutrale e cambia nel corso del tempo e dei protagonisti. Addirittura, si arrivò a discutere della proposta di metterle insieme, accorparle. Non parliamo di tanto tempo fa, ma della fine del Novecento: parliamo del periodo in cui il 2 giugno era decaduto come festa e qualcuno ebbe l’idea di istituire un'unica festa attorno al 25 aprile. Accanto a questi tentativi, c’è stato chi ha rilanciato una suggestione: il 25 aprile come festa di una parte politica e il 2 giugno come festa meno divisiva, di tutti. Qui occorre una riflessione. Penso che il concetto di antifascismo vada ripensato in una cronologia diversa, in un tempo più lungo rispetto a quello classico, inglobando il 2 giugno nel processo, perché la democrazia delle masse diventò una componente fondamentale dell'antifascismo, inteso come fenomeno che non si chiude "contro", non è solo “anti”, ma è prevalentemente “per”... per la costruzione del dopo, per l'apertura di una fase costruttiva e positiva. Sarebbe poco serio continuare a mettere in contrapposizione i due anniversari. In fondo, entrambe queste date, se analizzate e ricostruite da un punto di vista storico, ci permettono di capire quali siano stati i sentieri di uscita dell'Italia dalla guerra. Il 2 giugno è anche un grande catalizzatore di polemiche. L’anno scorso il discorso del Presidente Mattarella è stato duramente criticato da certi settori della destra per una frase in particolare sull’Europa "sovrana". Può aiutarci a capire il significato? La forza del 2 giugno è proprio quella di inserire l'Italia nascente in un contesto internazionale nel quale poi la sovranità verrà progressivamente condivisa con altri. Si parla di una doppia Costituente infatti: la nostra Costituente in chiave interna e la Costituente di un nuovo sistema internazionale che allora stava nascendo. All’inizio del suo libro si chiede: “È ancora una data che guarda al futuro?”. Che risposta si è dato? Io continuo a pensare ottimisticamente che il rispecchiarsi in una "comunità nazionale" come spesso la definisce il presidente Mattarella - una comunità tenuta insieme dalla scelta di riconoscersi in un orizzonte comune - possa aiutare le nuove generazioni ed essere un punto di riferimento nel tempo complesso che stiamo vivendo. Il 2 giugno davvero definisce un prima o un dopo. Per questo se crediamo nella democrazia con tutti i limiti e i problemi, anche gravi, che sta attraversando oggi, questo atto di fiducia ci permette di guardare indietro a quella giornata storica che può ancora guidarci nel presente.

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