Medioriente, l'ong Soleterre: "Aprire subito corridoi sanitari verso la Cisgiordania"

Damiano Rizzi è psicoterapeuta dell’età evolutiva e psico-oncologo ed è presidente e fondatore di Soleterre, una fondazione che interviene in Italia, e in diverse aree del mondo, garantendo salute e giustizia sociale dove è necessario farlo. È rientrato da pochi giorni da Beitjala, in Cisgiordania dove Soleterre garantisce medicinali e supporto psicologico nell’ultimo ospedale in zona che fornice cure oncologiche ai bambini. Un progetto realizzato grazie al sostegno di “Every child is my child”, della presidente Anna Foglietta insieme ad altri donatori privati. Damiano Rizzi, mentre si cercava di garantire le cure in Italia per i due superstiti della strage familiare a Gaza del 24 maggio scorso, in cui hanno perso la vita 9 figli, purtroppo il Padre di Adam è morto a causa delle ferite gravi causati dallo scoppio. Come possono madre e figlio immaginare di superare un dolore così grande anche se dovessero riuscire ad arrivare in Italia? Bisogna capire come sta il bambino perché le condizioni di cura sono davvero precarie. Spesso gli interventi vengono eseguiti senza anestesia, i farmaci sono pochi, non sappiano come sta e come lo stanno curando. Evidentemente solo una volta che arriverà in un ospedale italiano capiremo le effettive condizioni di salute di Adam. La sua casa e la sua famiglia erano tutto per lui, Adam ha perso il suo mondo in un attimo. Ha perso il padre e i suoi 9 fratelli, che nessuno al mondo potrà più restituirgli. Davanti a questo trauma “da fine del mondo”, Adam ha bisogno di trovare una nuova realtà che lo accolga insieme alla sua mamma e che possa respirare quanto prima fiducia e umanità, quelle che il mondo gli ha negato a soli 11 anni. I bambini perdono la fiducia, hanno paura, si fingono morti quando qualcuno si avvicina e ci vuole tanto tempo per recuperare la fiducia. Qualcuno l'ha persa per sempre. La perdita improvvisa e violenta di 9 membri della famiglia rappresenta un evento traumatico estremo, che supera la capacità di elaborazione psicologica ordinaria. Questo tipo di trauma è associato a una forte probabilità di sviluppare un Disturbo da Stress Post-Traumatico , con sintomi come flashback, incubi, iperattivazione fisiologica, e marcata evitazione dei ricordi del trauma. La perdita familiare violenta è un evento tipico per la diagnosi di PTSD, con conseguenze significative anche sul piano dell’adattamento sociale e familiare. La madre Alaa, una pediatra di 25 anni, si è salvata perché era in servizio all’ospedale Nasser. Stava curando altri bambini quando i suoi 9 figli hanno perso la vita. Cosa si può fare per aiutarla ad affrontare il viaggio con Adam e un futuro senza più la sua famiglia? In un contesto di sterminio familiare, i sopravvissuti possono sviluppare un’intensa colpa di sopravvivenza, nota come Sindrome del Sopravvissuto. Questa condizione, descritta nei contesti di genocidio, massacri o guerre, si manifesta con vergogna, autocolpevolizzazione e una sensazione di indegnità di essere vivi, contribuendo a un grave disagio psichico e a un rischio suicidario elevato. Difficile fare un ragionamento generale senza conoscere le persone. Serve uno psicologo palestinese, perché è molto importate la matrice culturale. Va sostenuta, in primis, perché se lei non crolla, il figlio ce la farà. Quello che sta vivendo questa donna è un molteplice senso di colpa, oltre al dolore inimmaginabile, quello di essere sopravvissuta e quello di non avere fatto abbastanza per i suoi figli mentre ne stava curando altri. Dovrà imparare a convivere con questi sensi di colpa, perché superarli è impossibile. Ma dovrà anche cercare di restare lucida per il figlio che è in condizioni serie di salute. Nei contesti di guerra il trauma è anche perdita di identità. Quando una famiglia viene distrutta da un attacco aereo, si annienta tutta la comunità di cui faceva parte. È fine di tutto. Per curare il padre di Adam, ventilato artificialmente dopo numerosi interventi al polmone e alla testa, è stato usato il paracetamolo, unico farmaco in quel momento disponibile. Come fanno i medici a curare in queste condizioni? Si chiama triage di guerra. E funziona al contrario. Non si curano prima i pazienti più gravi ma si cura prima chi ha maggiori possibilità di farcela. Questo significa che, chi sta peggio, si aggraverà. Il papà di Adam è arrivato già in condizioni estremamente critiche, forse non ce l’avrebbe fatta comunque, ma quello che è certo è che nella Striscia di Gaza il 94% degli ospedali opera in condizioni critiche. Mancano tutti i farmaci, non entra più nulla da mesi. I costi sono esorbitanti. Eppure, un milione e duecentomila bambini hanno bisogno di cure urgenti mentre 1400 operatori sanitari sono stati uccisi, così come il papà di Adam. Lei collabora con le facoltà di psicologia dell’Università Cattolica di Milano e con quella degli studi di Pavia. Rispettivamente è nell’unità che studia i traumi dell’età evolutiva e fa parte del dipartimento del sistema nervoso e del comportamento. Cosa caratterizza situazioni come quelle di Adam? Prima ancora che venisse colpito Adam, è possibile che facesse già parte di quel 40 per cento di bambini con una sindrome tipica della Palestina: un disturbo da trauma cumulativo, conseguenza del vivere in un posto dove ogni giorno vengono feriti almeno 20 bambini. Se aggiungiamo a questo, tutto quello che gli è già successo, capiamo quanto difficile sarà ritrovare fiducia nella vita. Purtroppo, questa condizione è comune a chi vive da sempre in quella zona, già prima dell’inizio del conflitto. Quale è la priorità ora? Un cessate il fuoco, fermare gli attacchi, evacuare chi ha bisogno di cure. Ci sono ospedali in Cisgiordania che distano solo un paio di ore da Gaza e che potrebbero curare i pazienti come quello dove sono stato fino a poco fa e dove stiamo lavorando. Sarebbe importante curare un paziente nella sua terra, senza sradicarlo. Sono persone altamente traumatizzate e estremamente povere, hanno bisogno di tutto. E non è detto che lo troveranno, a livello di accoglienza nel lungo periodo, in un Paese diverso dal loro. Durante la guerra in Ucraina abbiamo gestito l’evacuazione medica di duecento nuclei familiari, per 12 di loro abbiamo aperto un centro di accoglienza a Pavia e ci siamo ritrovati da soli. Perché una volta finito l’effetto mediatico, tutti se ne dimenticano. Se invece li spostassero in Cisgiordania sarebbero comunque all’interno di una terra che conoscono e che riconosce la loro identità. Noi rischiamo di non sapere di cosa hanno davvero bisogno, al netto delle cure mediche che certamente sarebbero le migliori possibili. Prendersi cura delle persone non significa solo curare i loro corpi ma comprendere la loro anima.

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