Sconnessi Day, Umberto Eco e l’arte di stare con o senza Internet

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Domenico Barrilà

Domenico Barrilà

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Close up of a young boy using a tablet computer, his finger hovering over it as he's about to touch the screen.

Il dosaggio tra virtuale e tridimensionale modella il nostro mondo interiore, la qualità delle nostre emozioni, ossia il modo in cui decideremo di stare in mezzo ai nostri simili. In altre parole, tocca il destino personale di ciascuno di noi e, di riflesso, le nostre relazioni, le loro caratteristiche, la loro durata

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“Il computer non è una macchina intelligente che aiuta gli stupidi, anzi, è una macchina stupida che funziona solo nelle mani di persone intelligenti”. Le parole contenute nel virgolettato sono di Umberto Eco, le aveva pronunciate nel corso di una riflessione presso la Casa della Cultura di Milano. Non essendo presente nella circostanza mi erano sfuggite, tuttavia, negli anni successivi l’Associazione aveva usato alcuni estratti delle relazioni più significative, di autori prestigiosi, riportandoli su dei manifesti poi finiti in diversi angoli della città, negli spazi adibiti. Mi ci ero imbattuto in piazza San Babila, il manifesto era affisso sulle pareti che delimitavano il cantiere della nuova linea metropolitana, oggi parzialmente in servizio, che collega l’aeroporto di Linate al Centro.

 

Con due semplici pennellate, il semiologo metteva in evidenza la vera questione su cui è appoggiato il rapporto, contraddittorio, tra noi e il digitale, che non è legato solo al “cosa”, visto che oramai il processo è irreversibile, ma soprattutto al “come”. Uno snodo fondamentale perché il dosaggio tra virtuale e tridimensionale modella il nostro mondo interiore, la qualità delle nostre emozioni, ossia il modo in cui decideremo di stare in mezzo ai nostri simili. In altre parole, tocca il destino personale di ciascuno di noi e, di riflesso, le nostre relazioni, le loro caratteristiche, la loro durata.

 

Il fatto stesso che esista una giornata mondiale della sconnessione da internet, qualcosa racconta, di sicuro dice che il problema non è solo la rivoluzione digitale, bensì la progressiva dipendenza cui andiamo soggetti, un fenomeno prima incassato con colpevole faciloneria, poi contestato senza grandi risultati, dal momento che le dipendenze non si chiamano così a caso e quando si innescano generano comportamenti che somigliano a delle patologie. Ora il dado è tratto, possiamo e dobbiamo provare a educarci, con realismo però, partendo dalla nostra storia, come se fosse una dima sulla quale rimodellarci.

 

Noi umani siamo reduci da centinaia di migliaia di anni di interazioni tridimensionali, responsabili delle nostre caratteristiche migliori, come la capacità di cooperare, di compartecipare, di scambiare emozioni e sentimenti, fino a identificarci e a caricarci sulle spalle, quando il processo è stato proficuo, i gravami altrui. Tutto il notevole progresso attinto in questo lungo e quotidiano intreccio, è causa ed effetto della nascita del sentimento sociale, l’arma più potente che abbiamo in mano, da esso scaturisce il genuino interesse verso il nostro prossimo, che è alla base della “normalità” psichica, ma il sentimento sociale si può coltivare solo alla vecchia maniera, in un ambiente dove azioni e relazioni tridimensionali sono prevalenti rispetto a quelle immateriali.

 

Quando il rapporto tra virtuale e tridimensionale si sbilancia eccessivamente a favore del primo, le probabilità di minare l’equilibrio personale e sociale si alzano vertiginosamente, come testimonia il fenomeno delle dipendenze, ma noi non possiamo esorcizzare questa deriva limitandoci a inventare parole specialistiche, come l’oramai celebre nomofobia, ossia la paura irrazionale di rimanere sconnessi, che non ci risolve i gravi problemi legati al rapporto con la virtualità, semmai ci fa apparire ingenui quanto l’astronomo nel Piccolo Principe, che si illudeva di possedere le stelle solo perché le contava.

 

Non è dando un nome alle cose che impariamo a conoscerle, quello ci permette solo di indicarle o al massimo di compiacerci della capacità di crearne a piacere, come quando abbiamo trasformato la nostra poetica forza d’animo nella più anonima ma trendy resilienza, nata per misurare le caratteristiche di tenuta dell’acciaio, materia inanimata, non certo la delicata tessitura dell’essere umano. Forse neppure questo è un caso, in un mondo che ci vuole sempre più veloci e performanti, ma preferisce mascherare le sue finalità dietro il belletto dei nomi. Disconnettersi per un giorno oppure per un’ora serve soltanto se è l’inizio di qualcosa, non certo per farci credere che “posso smettere quando voglio”, una finzione consolatoria che riscontriamo quotidianamente nelle persone affette da una qualche forma di dipendenza, comprese quelle legate al lavoro.

 

Dobbiamo fare dei passi avanti evitando di aprire guerre di religione e scansando i pregiudizi ideologici, ma con la consapevolezza che esiste un mondo parallelo che in pochi decenni si è affiancato a quello che frequentiamo da oltre 300 mila anni ed è in procinto di soppiantarlo, lasciandoci però gli stessi desideri di sempre, troppo connaturati nella nostra umanità per essere cambiati: sentirsi al sicuro, essere chiamati per nome, contare qualcosa per qualcuno. Il punto è che quando non c’è l’investimento del corpo, la compresenza negli stessi spazi, non si arrossisce e non si paga dazio, così i nostri comportamenti, privati dei loro moderatori naturali, perdono la misura alimentando risposte a loro volta prive di misura, ne segue che le emozioni, toccate in modo parossistico, perdono la loro funzione di peso e di misura, aprendo la strada al caos. Un terreno drogato sul quale soggetti particolarmente abili, capaci di influenzare, costruiscono imperi giocando proprio su quei desideri perenni di cui si diceva, ma soprattutto vellicando i nostri sentimenti di inadeguatezza, con improbabili promesse di riscatto che diventano cambiali difficili da incassare e ci lasciano in un malinconico, perché irrisolto, stato di insoddisfazione.

 

La Rete non inventa i nostri lineamenti, però li esaspera, li deforma, li mette in balia di tempi e procedure di cui è difficile acquisire il controllo. In compenso inventa sfide e bisogni a getto continuo, che qualcuno ci vende facendoci credere sia ciò che vogliamo veramente. Possiamo spegnerla per un’ora o per un giorno, quella Rete, ma l’unica soluzione possibile è imparare a starci dentro non in modo esclusivo e tenendo saldamente in mano il volante. C’è un lavoro immenso da fare, a cominciare dalla riformulazione del significato dell’espressione digital divide, oggi usato per indicare il grado di difficoltà di accesso di una parte della popolazione ai servizi informatici. Sarebbe meglio utilizzarla per segnalare la potente asimmetria che esiste tra l’universo digitale e i suoi utenti, tra le sue regole e le nostre, tra le sue finalità e le nostre, tra i suoi interessi e i nostri. Nessuno deve dare per scontato che siano sempre compatibili.

 

Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, è considerato uno dei massimi psicoterapeuti italiani.
È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra gli ultimi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, nonché il romanzo di formazione “La casa di Henriette” (Ed. Sonda).
Nella sua produzione non mancano i lavori per bambini piccoli, come la collana “Crescere senza effetti collaterali” (Ed. Carthusia). 
È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/

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