Usare l’Ai in una docuserie: il caso Rigopiano

“Abbiamo alzato lo sguardo e abbiamo visto la ferita della montagna. Una lacerazione nel bosco che indica il percorso della valanga. È stato impressionante vedere come sia arrivata esattamente sopra l’hotel. Erano le prime immagini che giravamo, alla commemorazione delle vittime del 18 gennaio” racconta il regista Paolo Negro. Insieme a Pablo Trincia, Debora Campanella e Audrey Gouband, con il contributo di Serena Impalà al montaggio, ha lavorato per realizzare i cinque episodi che ricostruiscono la lunga catena di attimi, decisioni e non-decisioni che hanno portato alla tragedia di Rigopiano. Rispetto al podcast, cosa è cambiato nella struttura del racconto? Il podcast permette di andare più in profondità nelle storie, sia per la durata delle puntate sia perché non hai bisogno di immagini che supportino il racconto. Dico sempre a tutti di ascoltare prima quello e poi di vedere la docuserie. In questa abbiamo scelto una narrazione più emotiva, più empatica, per raccontare quello che rimane della tragedia. Una delle sfide più grandi è stata capire come raccontare la valanga. I loro racconti erano fortemente contaminati dal trauma. Dovevamo raccontare un evento che nessuno aveva visto effettivamente ma solo percepito. Ognuno ha usato immagini fantasiose, svincolate dalla realtà. Giampiero Parete lo raccontava come un orso che correva spezzando i rami. Giampaolo Matrone lo ricordava come il sibilo di una metropolitana che arriva. Percezioni sensoriali che con l’audiovisivo sono difficili da raccontare. In quel momento abbiamo deciso di ricorrere a uno strumento nuovo nell’audiovisivo e ancora imprevedibile: l'intelligenza artificiale. Come si usa l’intelligenza artificiale in una docuserie? È stato un approccio del tutto sperimentale, non credo che altri lo abbiano ancora fatto. Volevamo immagini che restituissero una sfera più emotiva che razionale. Abbiamo iniziato con la generazione di immagini attraverso Midjourney dando come riferimento alcune fotografie a cui abbiamo aggiunto descrizioni dello scenario. Volevo qualcosa che ricordasse la tecnica pittorica e la resa cromatica dei quadri di Turner. Come siete arrivati al risultato finale? Con Stable Diffusion abbiamo realizzato le animazioni. Abbiamo dovuto studiare e capire quali fossero i comandi giusti, i cosiddetti prompt, per dialogare con l’IA. Ci ha aiutato un giovane film-maker, Alessandro Palumbo, appassionato di questo ambito, che ancora oggi non esiste come mestiere. Con lui abbiamo deciso di adottare un approccio artistico, lasciandoci ispirare e sorprendere dai risultati della macchina. Davamo i comandi e solo il giorno dopo potevamo vedere cosa aveva prodotto. Era proprio l’elemento di imprevedibilità che stavamo cercando. Per esempio, con vari tentativi abbiamo scoperto i comandi giusti per realizzare un movimento di torsione che dava all'immagine il senso di tensione che volevamo restituire agli spettatori. Ci sono stati imprevisti? A un certo punto del lavoro, quando ci mancavano ancora un po' di immagini, abbiamo avuto un problema. La macchina era stata aggiornata per cui non rispondeva più ai prompt che avevamo trovato. Abbiamo dovuto rifare tutto da capo però sono molto soddisfatto del risultato, siamo riusciti a rendere quella dimensione emotiva, anche onirica, delle esperienze vissute dai testimoni. Come vi siete approcciati ai familiari delle vittime e ai sopravvissuti? Sono persone estremamente traumatizzate e che negli anni sono diventate diffidenti perché hanno visto spesso il loro dolore strumentalizzato. Siamo entrati in punta di piedi nei loro spazi, non abbiamo voluto toccare il loro ambiente, manipolarlo, cosa che si fa spesso nelle interviste. Le riprese sono state fatte con la telecamera a mano per avere un set leggero, quasi invisibile, ma anche perché guardando attraverso l’obiettivo si entra più in risonanza con il racconto. Volevamo che la loro emozione vibrasse nella telecamera. Per noi quella era la restituzione importante. Quando usciva fuori il dolore, quello più intimo e scomposto, abbassavamo le telecamere e ci fermavamo. Sono cose che abbiamo voluto lasciare nella dimensione privata. Nella docuserie vediamo anche tanti video girati dalle persone che quel 18 gennaio 2017 erano nell’hotel, che valore hanno aggiunto queste testimonianze? Di tutto quello che c'era prima della tragedia, non c'è quasi niente. Per raccontare il terremoto e poi la valanga avevamo le suggestioni dell’IA, ma ci mancava l’albergo. Quel materiale è stato fondamentale anche per un altro motivo: ha un valore estremamente potente dal punto di vista simbolico. Sono video che nascono per raccontare quanto fosse bello quel posto a figli, madri, fratelli… Riviste con la consapevolezza di quello che è successo, producono un effetto straniante. Quando uno li registra guarda in camera e si rivolge al destinatario. Oggi si rivolgono a noi in prima persona e sono a tutti gli effetti manifestazioni di fantasmi, presenze di persone che non ci sono più e che ti chiedono qualcosa. Nel folklore diventa un fantasma solo chi muore di una morte ingiusta o che deve chiedere ai vivi di porre rimedio a qualcosa. Quei video raccontano a noi che siamo qui la volontà di giustizia di queste persone. Per questo abbiamo deciso di proiettarli sulle macerie dell’hotel, crediamo che sia il modo migliore per veicolare il loro messaggio e la loro richiesta di raccontare come sono andati i fatti, perché loro non possono più farlo. Che tipo di giustizia volevate rendere a queste persone? A noi interessava raccontare come sono andati i fatti e far trasparire il carattere universale di questa storia: come l’inadeguatezza, l’incompetenza, la superficialità di alcune persone possa aver portato a un esito così tragico. Il nostro tentativo di sensibilizzazione non è tanto verso la giustizia retroattiva, su quello che è stato Rigopiano e su cui poco possiamo fare. È rivolto alle nuove generazioni e alle attuali classi politiche. C'erano tanti momenti individuali in cui gli amministratori avrebbero potuto cambiare il corso delle cose. Spesso raccontiamo la burocrazia come un qualcosa di astratto, immateriale. In realtà, è fatta da persone persone che hanno il potere di cambiare il destino degli altri. Bastava che un solo anello di questa catena si spezzasse per annullare tutti gli errori degli altri. Dopo questa storia che idea si è fatto del concetto di destino? Il “Come sarebbe andata se?” ci tormenta a posteriori ma credo che sia un esercizio mentale di cui abbiamo bisogno per riempire dei vuoti di senso. È affascinante ma può essere anche pericoloso perché un conto è il destino come qualcosa di imponderabile, una casualità che cambia tutto come essere seduto sulla poltrona padronale o essere su quella di vimini. Mentre, per quanto riguarda l'attività delle istituzioni, quello non è più destino. Sono decisioni consapevoli e soprattutto non-decisioni. Quello che è stato difficile raccontare è che qua spesso si è trattato non di un’azione ma di una non-azione che ha determinato quello che poi è successo: 29 vittime. Questo non ha niente a che vedere con il destino, è negligenza. La soddisfazione più grande che le ha lasciato questo lavoro? Abbiamo sempre pensato a un solo pubblico mentre montavamo la serie: le persone di cui stavamo parlando. È stato il faro nelle scelte che abbiamo fatto. Sapere che in loro ha smosso qualcosa è la gratificazione più grande. A Pescara, dopo l’anteprima, ho visto la sorella di Roberto Del Rosso, il proprietario dell’hotel, in lacrime. Mi sono spaventato all’inizio ma poi abbiamo capito che per lei era stato un momento catartico e importante per lasciare andare un po’ questa storia. Giampaolo Matrone mi ha detto di aver guardato la serie con sua figlia, ormai tredicenne, che ha perso la mamma a Rigopiano. Ricevere il ringraziamento di questa bambina mi ha fatto capire che avevamo fatto quello che dovevamo fare. Poi c’è stato Marco Foresta. Dopo la quarta puntata, che è quella in cui racconta di come ha perso i genitori Bianca Iudicone e Tobia Foresta nella valanga, ha spento la televisione e chiamato Magda, la ragazza conosciuta poco prima di Rigopiano e motivo per cui non è andato in montagna insieme alla mamma e al papà. Le ha dato un anello appartenuto alla madre e ha condiviso questo momento inviandomi il video registrato con il telefono del padre. Un pegno d’amore alla sua futura moglie e alla sua nuova famiglia. Mi ha scritto “Stavo aspettando che arrivaste voi per voltare pagina”, lui che per sette anni ha tenuto in quello che ha chiamato “Il cassetto dei mostri” una busta con gli oggetti personali indossati dai genitori il giorno della valanga. Questo gesto in cui ha voluto che in qualche modo ci fossero anche i suoi genitori è come se fosse stato un passaggio di consegne verso una vita nuova. Questa persona ha potuto lasciare che la sua famiglia di provenienza fosse libera di restare nei ricordi, negli affetti, però nel mondo a cui appartiene, cioè nel passato, per poter finalmente abbracciare il futuro e costruire la sua nuova famiglia. Sono quelle cose che ti fanno capire come con un lavoro del genere si può agire sulla vita delle persone.