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Django. Su Sky gli ultimi episodi della serie ispirata al film di Corbucci. Recensione

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Alessio Accardo

Giunge alla fine la serie originale Sky e CANAL+, tra omaggi al cinema di genere degli anni ’60 e riflessioni non banali su temi politici e figure mitologiche

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Ora che la serie originale Sky e CANAL+ sta finendo, lo possiamo dire forte e chiaro: comunque la si valuti, Django va considerata un degnissimo epigono del cult-movie girato da Sergio Corbucci nel 1966. Un film che, come già rilevato, è un autentico patrimonio artistico del cinema italiano, essendo stato più o meno indirettamente citato da Quentin Tarantino (per ben due volte: nella terribile scena dell’orecchio mozzato de Le iene e, ovviamente, in Django Unchained) alla saga di Star Wars, da anime come Ken il guerriero a manga come Trigun e Berserk. Soltanto per menzionare i casi più eclatanti.

Il documentario sul cult di Corbucci

Eppure, a ben vedere, lo spaghetti-western di Corbucci è un film molto ostico e tutto calato nella sua contemporaneità. Pur se girato negli stessi anni dei film di Sergio Leone, qui l’epica romantica lascia spazio a un racconto intriso di violenza, crudeltà e cinismo. Le ragioni di questo cambio di registro sono spiegate benissimo da un doc disponibile su “Sky Documetaries”, Django & Django - Sergio Corbucci Unchained, in cui ancora Tarantino illustra la poetica del cineasta romano, dicendo fuori dai denti che la violenza estrema del suo cinema è frutto del retaggio dei mostri del regime fascista, che il regista italiano aveva osservato e patito nel corso della sua giovinezza. Ecco allora che, nell’attualizzare temi e stile di quel capolavoro, Comencini & co. ne restituiscono il senso di angoscia mortifera, senza limitarsi alle citazioni più apparenti: nel primo episodio avevamo visto la leggendaria cassa da morto che il personaggio di Franco Nero si trascinava dietro, nell’ultimo vedremo crepitare la altrettanto mitica mitragliatrice che da quella bara veniva estratta.

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LA FESTA DI CARNEVALE

Ad onta di quanto appena detto, il nono episodio si apre con una festa organizzata da John Ellis a New Babylon, ovviamente non violenta e pacifista. Un giocoso ballo in maschera, zeppo di risate, violinisti e mangiatori di fuoco. L’evento scatena però l’ira funesta della sua nemesi, ovvero Elizabeth, il super-villain della serie. Secondo lei, quella città è un covo di atei lussuriosi, una sentina di vizi da purificare; e la festa che stanno organizzando equivale a sostenere che l’Anticristo ha vinto. Citando la Bibbia a ogni piè sospinto, la “Signora” si sente investita di una missione divina, messianica: sconfiggere il diavolo, come fosse un soldato di Dio. Perciò guida Elmdale, armando la sua popolazione come un esercito di crociati pronto a sradicare il male dall’orbe terracqueo. È una fanatica religiosa, una fondamentalista cattolica; anche se il suo risentimento proviene più da ragioni biografiche che morali.

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ELIZABETH E IL MITO

Difatti, come è noto, in vita sua Elizabeth ha amato un solo uomo, salvo scoprire che si trattava di suo fratello, John per l’appunto. Ecco allora che la nostra serie, dopo aver già evocato nei precedenti episodi figure mitologiche come Edipo e Medea, ricorre qui ad altre coppie antinomiche, che richiamano da un lato la ambigua dicotomia fratelli\coltelli (Caino e Abele, Romolo e Remo; ma anche Castore e Polluce, Eros e Anteros) e dall’altro il pattern degli amanti proibiti (Piramo e Tisbe, ad esempio, due personaggi delle Metamorfosi di Ovidio che hanno fornito l’ispirazione a Shakespeare per scrivere Romeo e Giulietta). Non solo, Django si cimenta così con un tema assai profondo come è il tabù dell’incesto, di cui Freud scrisse: “Ignoriamo l’origine dell’orrore dell’incesto e non possiamo nemmeno dire in quale direzione cercarlo”. L’orrore, dunque, categoria utile a spiegare l’identità tetragona e macabra del personaggio interpretato da Noomi Rapace, e lo stile di questo show davvero originale.

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UN PRODOTTO PER NULLA BANALE

Insomma, avviandoci verso lo showdown finale di Django, ci rendiamo conto che al di là delle apparenze si tratta di un prodotto per nulla banale, che tenta di indagare sull’inafferrabilità sfuggente della realtà, in cui in definitiva nessuno è davvero fino in fondo quel che sembrava essere a tutta prima. Dopo anni di segreti e bugie, giunge inesorabilmente la resa dei conti nella quale ciascun personaggio si rivela per quello che è. Dopo i travisamenti, gli inganni e i traumi rimossi, giungono così le più inattese delle agnizioni; fino a scoprire che tutta la vita è stata vissuta alimentando un abbaglio, amando l’uomo proibito e odiando il nemico sbagliato.

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I DILEMMI ETERNI DIETRO IL GENERE

E così, nel tirare le somme, non possiamo non vedere come, dietro la fabula del cinema di genere, la serie scritta da Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli, provi a interrogarsi su dilemmi eterni ancora attuali. Ad esempio, sul tema della vendetta, che è il carburante narrativo di molti conflitti non soltanto western. Tutti i personaggi della serie sono mossi da questo sentimento: Django\Julian si trova a New Babylon per cercare le persone che hanno ucciso la sua famiglia. Elizabeth è mossa dalla rabbia vindice verso l’unico uomo che ha amato, ignorando che si trattasse di suo fratello. E anche John, tanti anni prima, compì una strage per vendicare il figlio ucciso in battaglia.

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IL TEMA DELLA VENDETTA

E però - pare dirci la serie senza gridarlo troppo: serve davvero la vendetta a restituirci l’affetto dei defunti cari? Oppure è il più turpe sentimento che l’essere umano possa mai concepire? Il sentimento più profondamente anticristiano, con buona pace di Elizabeth, come ci insegnano i Vangeli: “Avete inteso che fu detto: ‘Occhio per occhio e dente per dente’. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l'altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”.

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DALLA PARTE DI JOHN

Gli autori, invece - si capisce - stanno dalla parte di John Ellis, che sognava di fondare una nuova città, una nuova società dove tutti fossero liberi e uguali. La guerra è il male assoluto, insomma, questo è il senso. Eppure, gli uomini continuano a farla, nel far west del XIX secolo come nell’Europa dei nostri giorni. Chiudiamo in bellezza, con la citazione d’obbligo di una colonna sonora da David, affidata ai Mokadelic, gruppo di musica elettronica post-rock divenuto famoso grazie allo score di Gomorra - La serie. La canzone che scorre sui titoli di coda, invece è il capolavoro di Johnny Cash I see a darkness, che recita così: “And that I see a darkness / Did you know how much I love you? / Here's a hope that somehow you. / Can save me from this darkness”.

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