L’Ultimo Sciamano, in onda su Sky Atlantic, domenica 24 settembre alle ore 21.15 all'interno del ciclo Il Racconto del Reale, è la storia di un viaggio nei più remoti angoli del mondo, di una ricerca, di una scoperta. Dopo aver provato personalmente gli effetti curativi dell’Ayahuasca, Raz Degan ha deciso di indagare a fondo questa realtà, vivendo tra le tribù indigene dell’Amazzonia, dove ha incontrato sciamani, gringos e James, divenuto poi protagonista del documentario. Nell’intervista Degan ci racconta di questa straordinaria avventura e del fine ultimo del suo lavoro: continua a leggere e scopri di più
Un viaggio nel cuore dell’Amazzonia, alla scoperta di un mondo tanto lontano da quello occidentale, quanto affascinante. Raz Degan, zaino in spalla, videocamera alla mano, ha vissuto quattro anni con le tribù indigene, conquistando la loro fiducia e provando sulla propria pelle i poteri curativi dell’Ayahuasca, un infuso di erbe utilizzato dagli sciamani per guarire qualsiasi malattia, da quelle fisiche ai disturbi piscologici. Così è nato L’Ultimo Sciamano, documentario che narra il processo di guarigione intrapreso da James, un ragazzo all’apparenza perfetto, che però combatte contro la depressione. Dopo aver preso psicofarmaci di ogni genere, essersi sottoposto all’elettroschock e a qualsiasi cosa offrissero gli ospedali americani, James decide di provare un’ultima strada: partire alla ricerca di uno sciamano, in Perù, in grado di liberarlo dal suo malessere.
L’Ultimo Sciamano, in onda su Sky Atlantic, domenica 24 settembre alle ore 21.15 per il ciclo Il Racconto del Reale, offre un punto di vista privilegiato all’interno di un mondo dalle mille sfaccettature, dove fede, potere, interessi, ritorno alle origini si intrecciano e si sovrappongono continuamente.
In occasione della presentazione del documentario, Raz ci ha concesso un’intervista, raccontandoci con il sorriso sulle labbra, gli occhi limpidi e la voce pacata la sua straordinaria avventura, le difficoltà incontrate e il fine ultimo del suo lavoro.
L'Ultimo Sciamano racconta due tematiche difficili e molto dibattute, la depressione e la medicina naturale, lontana dagli standard occidentali. Com’è nata l’idea di affrontare, in maniera strettamente collegata, questi argomenti?
All’inizio mi affascinava molto l’Ayahuasca. Questa pianta che in Sud America è chiamata ‘medicina’, mentre in occidente ‘droga’. Sono secoli che in tanti posti del mondo le piante vengono usate per guarire le persone da malattie fisiche e mentali, ma anche per invocare gli spiriti, propiziare una battaglia o richiamare l’acqua in un periodo di siccità. Ho avuto un’esperienza in prima persona con quest’infuso di erbe, che mi ha aiutato a guarire dalla polmonite e ha aiutato molto anche mia madre. È stato a quel punto che ho deciso che volevo condividere con il mondo questa storia. Ho avuto voglia di documentare, di fare il film. Mentre ero in Perù ho conosciuto James e mi sono convinto che attraverso la sua storia il racconto sarebbe stato migliore. Volevo mostrare che la sostanza può influenzare noi ma anche viceversa. Quando andiamo lì per comprarla non facciamo bene a quei luoghi lontani, perché alimentiamo un sistema di sfruttamento, abusi, manipolazione della popolazione locale che viene trascinata nel sistema di vendita del divino. Quando entrano i soldi in gioco è sempre l’inizio del crollo.
Nel documentario ci presenta diversi aspetti dell’Ayahuasca: un infuso di erbe che può guarire e uccidere, che è somministrato da sciamani inseriti in un giro d’affari e ormai non più genuinamente intenzionati ad aiutare le persone quanto a far soldi, e sciamani come Pepe, sempre più rari, che invece mettono le loro conoscenze al servizio degli altri. Ha sperimentato di persona queste diverse sfaccettature?
Per me è stato tutto una scoperta, sono arrivato lì pensando di trovare solo cose belle, rose e fiori. Per due mesi è stato davvero così, finché in una cerimonia è accaduto l’impossibile, un uomo è stato molto male. A quel punto ho iniziato ad indagare più a fondo, ho alzato il velo e ho scoperto che è tutto davvero sporco. Tuttavia, bisogna ricordare che i soldi, il profitto, le ingiustizie non hanno a che fare con la bevanda, realizzata con elementi naturali. È l’essere umano che rovina tutto, che si vende per trenta denari.
Una delle cause del malessere di James, com’egli stesso ripete più volte, è la spinta al successo, agli alti standard imposti dalla società occidentale. Un disagio vissuto da molti. Pensa che, anche senza arrivare a soffrire di una depressione così profonda, la soluzione o meglio una prevenzione possa essere un ritorno alla semplicità della vita, ad un contatto più diretto con la natura anche nel quotidiano di ognuno di noi?
Il mondo accelerato in cui viviamo, così virtuale, staccato dalla natura, non ha nessuna realtà, non può soddisfare l’anima, il tuo vero essere. Quando pianti un seme hai una cosa viva in mano, quando tocchi un amico, cammini con qualcuno stai vivendo, ma quando sei attaccato agli strumenti, ai social, quando pensi a misurarti con gli altri in base alle cose materiali, rischi di perdere una cosa importantissima: il collegamento essenziale con la natura, con gli altri esseri viventi. Credo che oggi il malessere di tanti derivi proprio dalla mancanza della sostanza vera. Oggi tante malattie che derivano dallo stress e sono curate con le pillole hanno a che fare con i ritmi moderni, troppo lontani dal genuino.
Com’è riuscito a conquistare la fiducia degli sciamani e della gente dei luoghi che ha visitato per realizzare il suo progetto?
C è voluto molto tempo. Ho conquistato la loro fiducia vivendo per mesi nelle tribù, partecipando a tante cerimonie. Non volevo che la mia presenza fosse un fastidio, per questo ho girato quasi tutto il film da solo. Volevo che la sensazione fosse ‘io ci sono, la videocamera no’. All inizio erano diffidenti, mi guardavano come un ‘gringo’, uno straniero, qualcuno venuto a rubare qualcosa… e alla fine l’ho fatto, ho rubato queste immagini, ma cercando di farlo nel modo più obiettivo e sincero possibile. Non ho voluto mostrare però, l’effetto dell’Ayahuasca su di me, anche se sarebbe stato più interessante per uno spettatore occidentale. Ho preferito far vedere come la nostra presenza influenza quella realtà.
Ha incontrato tanti occidentali che volevano partecipare ai riti di guarigione?
Si certo, prima di scegliere James come protagonista del film ho intervistato per circa un anno tantissima gente. C’era chi voleva farsi curare malattie fisiche o mentali, curiosi, altri che cercavano il divino, chi voleva diventare uno sciamano. È pieno di pazzi lì, non manca nulla.
A quale tipo di medicina, lei personalmente, preferisce far affidamento?
Personalmente preferisco il metodo omeopatico, più sciamanico possibile, di guarirmi. Ma se ti serve, ad esempio, la penicillina, devi andare in ospedale e curarti con i farmaci. È per i problemi legati all’aspetto mentale e psicologico che preferisco i metodi naturali, rispetto a tutte quelle pillole.
“In oneself lies the whole world and if you know how to look and learn the door is there and the key is in your hand. Nobody on earth can give you either the key or the door to open. Except Yourself.”- Jiddu Krishnamurti
La citazione che apre il documentario invita a guardarsi dentro per trovare la porta e la chiave per accedere al mondo intero, a nuovi spazi e alla verità. Lei ha trovato quella porta e la chiave giusta ad aprirla? Dove l’ha portata o dove la sta portando?
La citazione del grande Krishnamurti è l’essenza stessa del film. Nessuno può fare il cammino per te, lo puoi fare solo tu, devi trovare le chiavi e capire che la porta è di fronte a te, ma solo tu puoi attraversarla, non c’è nessuno che ti spinge. Come la vivo personalmente? Bè, io cerco di ricordarmi che ogni giorno è un regalo e anche quando qualcosa non è come vorrei, tengo a mente che è soltanto quel momento. Tutto può cambiare in un giorno. Credo molto nei miracoli e nel potere della mente di cambiare le cose. Tutto il rumore che abbiamo in testa causa il male, è inquinamento, bisogna ignorarlo.