Al centro del commento a cura di Giovanni Foresti, uno degli psicoterapeuti della S.P.I. (Società Psicoanalitica Italiana), c'è Dario, il suo senso di colpa e la rispettiva elaborazione
di Giovanni Foresti
Ci sono Colleghi ‘psy’ (intendo psichiatri, psicologi, psicoterapeuti e psicoanalisti che non hanno perso la buona abitudine di ascoltare/parlare con i pazienti) ai quali In Treatment proprio non piace. Si tratta di un parere del tutto legittimo, naturalmente, anche perché – come dice un antico adagio – dei gusti personali conviene non discutere. Alcuni di coloro cui lo spettacolo non piace, spingono però il loro disdegno molto avanti e sostengono che questa serie sia addirittura dannosa per la credibilità professionale di psicoterapeuti e psicoanalisti (credibilità che viene intesa, e difesa, secondo il modello metodologico da loro più apprezzato, ovviamente).
Quando gli argomenti di natura tecnica non bastano per criticare il serial, alcuni ‘psy’ s’improvvisano critici cinematografici e s’impegnano a svalutare il lavoro dei professionisti che l’hanno creato, sottolineando le debolezze della sceneggiatura, le ingenuità della regia o l’inefficacia dell’interpretazione degli attori. Credo che il quinto episodio degli incontri fra il Dott. Mari e Dario sia particolarmente ben riuscito tanto quanto come spettacolo televisivo che come documento di finzione/intuizione clinica. Scrivo dunque queste note con l’intento di dimostrare quanto siano ingenerosi e incongrui, in questo caso, gli attacchi dei fautori del miracolo psichico ineffabile.
L’episodio si compone di tre fasi fra loro ben integrate. Nel primo ciclo dello scambio discorsivo, i due interlocutori interagiscono molto vivacemente (dovessi dire in cosa si distingue, ciò cui assistiamo, da una seduta ‘vera’, direi che la differenza è analoga a quella fra il tennis e il ping pong: in una fase come questa, un analista DOC non si lascerebbe attirare sotto rete; resterebbe a fondo campo cercando di rallentare il gioco del battibecco e delle sfide). Come negli episodi precedenti, Dario mira ad attaccare il suo terapeuta e, per farlo, mette in campo una tattica di guerriglia dialogica già ampiamente utilizzata negli episodi precedenti.
La tradizione psicoanalitica chiama questa modalità d’interazione ‘inversione di prospettiva’, perché il paziente cerca appunto di rovesciare i ruoli curante/curato e di mettere lo psicoterapeuta in una posizione emotiva di difficoltà crescente. Non è un’evenienza rara. Tutt’altro. Qualche volta si tratta di operazioni assai sottili che sono difficili da riconoscere e dunque da fronteggiare. Più spesso, invece (per fortuna), ci si deve confrontare con artifici piuttosto grossolani che non è impossibile disinnescare. Comunque non è lo ‘psy’ che conduce il gioco, in questi casi, ma il paziente.
Non volendo subire interpretazioni, Dario fa lui le interpretazioni che ritiene pertinenti. Dice di aver raccolto degli indizi e di sapere bene che i rapporti fra il Dott. Mari e la sua paziente, Sara, non sono sempre impeccabili e professionali. A disturbarlo enormemente – sembra chiaro – è l’importanza che Giovanni ha assunto nella vita dei suoi pazienti.
Quando si sente in vantaggio e ritiene di aver inchiodato il terapeuta (“Perché mi guarda così? […] Mi guarda come uno che si sente scoperto e vuole attaccarmi”), Dario parla però di suo padre (“E’ da lui che ho imparato il significato di uno sguardo me il suo”) e si allinea con quest’ultimo, cioè col padre-nella-mente (il Padre che ha dentro di sé), immaginando che l’intento della cura sia svalutarne la funzione. “Coraggio – dice al terapeuta – scarichi il suo caricatore: mi massacri di domande. […] Non è questo che fate voi terapeuti? Non ce l’avete sempre coi genitori? Non sono sempre loro la causa di tutti i mali?”
Nel secondo ciclo discorsivo il dott. Mari passa al contrattacco. Approfitta del varco che gli è stato aperto dalle parole del paziente (“Che fa? Vuole paragonarsi a mio padre? Ma non sa che mio padre è d’acciaio?”) e lancia un’offensiva interpretativa in grande stile (“L’acciaio mi fa pensare a due cose.”). Giovanni non sembra cogliere l’urgenza deflagrante del problema emotivo emergente sin dal primo incontro (il senso di colpa per la strage di Oberhafen). Anziché sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda del suo interlocutore (“Mi dica cosa pensa di me? Di un uomo che ha sparato in testa a un altro uomo?”), purtroppo fa esattamente quello che il paziente aveva previsto e preparato: si concentra sulla figura del padre magistrato. La linea argomentativa del terapeuta è molto chiara. Dario è cresciuto all’ombra di una figura genitoriale idealizzata che non è mai riuscito a criticare. Dunque, dice Giovanni, il paziente avrebbe sempre fatto una gran fatica a crescere e non sarebbe mai stato in grado di esprimere il suo risentimento nei confronti del genitore. Adesso, quest’odio mai espresso, lo rovescerebbe addosso al terapeuta.
La terza parte del colloquio inizia con la battuta che fa seguito all’iniziativa interpretativa di Giovanni. “In vita mia – dice Dario – non ho mai visto tanto disprezzo.” Nella prospettiva sistematicamente rovesciata di cui si serve per difendersi, ha ragione di pensarlo. Il disprezzo che vede in Giovani non è però lì dove lui lo immagina, ma nelle relazioni interne che organizzano la sua vita psichica. In particolare e più specificamente, il disprezzo è implicito nella furia con cui una figura interna severissima, il padre-magistrato, tormenta un’altra figura del suo mondo interiore: il responsabile della strage che è avvenuta in Germania e di quelle che si stanno adesso riproducendo in Italia.
Sentendosi attaccato dal terapeuta e immaginando inoltre criticato il suo monumentale Padre, Dario sferra un contrattacco privo di scrupoli: organizza un discorso mostruoso, inaccettabile e abusivo. Tortura Giovanni con particolari veritieri sulla vita della sua famiglia – dettagli privati e personali che sono il risultato, dice, di un’indagine poliziesca durata solo poche ore. Lo accusa di aver abbandonato il proprio padre in una casa di riposo, lo informa del viaggio a Parigi della moglie col suo amante e imperversa anche sulla figlia del terapeuta, descrivendo con disprezzo la personalità del ragazzo col quale questa si accompagna (“un tossico”). Dato che il terapeuta rimane immobile al suo posto, Dario insiste e torna allora ad attaccare Sara (“una puttanella isterica” la definisce).
È a questo punto che sceneggiatori, regista e attori introducono la loro invenzione più efficace.
Giovanni si ribella alle vessazioni che ha dovuto subire e attacca fisicamente il suo interlocutore. Tecnicamente, dicono gli ‘psy’, il terapeuta replica agli agiti del paziente con un agito: ossia, costroagisce. Getta in volto al paziente il suo caffè, si alza furiosamente dalla poltrona, afferra con entrambe le mani la camicia di Dario e gli urla sulla faccia il suo anatema: “Lascia stare i mei pazienti!”
I due rimangono per qualche attimo così: immobili. Poi Giovanni rilascia i pugni, Dario prende la sua giacca e se ne va senza dire una parola. Il terapeuta rimane solo in preda al suo tumulto interiore e mentre cerca di raccogliere i cocci della tazza, si ferisce una mano. Entra la moglie, di ritorno da Parigi. Gli medica la ferita e parla, ma arriva un altro paziente; la moglie esce dalla stanza e Giovanni apre la porta.
Stacco e controcampo: la macchina da presa ruota di 180° e mostra la prospettiva di uno spettatore che stesse alle spalle del nuovo paziente. Il volto di Giovanni pare tranquillo, sorridente. Non è finzione e falsità, come sa bene gli spettatori che sono del mestiere. Il lavoro deve proseguire comunque, perché ci sono altre responsabilità cui occorre far fronte.
Mentre cerco di immaginare cosa diranno questa volta gli ipercritici incontentabili, mi viene in mente una poesia di Borges intitolata Baltasar Graciàn. Il poeta immagina la vita interiore di un intellettuale per il quale la poesia non era “musica dell’anima, ma un vano/erbario di metafore ed arguzie/cieca venerazione per le astuzie/disdegno per l’umano e il sovrumano”.
Ciò che gli spettatori intuiscono veritiero in questo episodio di In Treatment, è la turbolenta vivacità dello scambio emotivo fra i due interlocutori. I personaggi vivono come possono e cercano un loro modo per comunicare. Gli artisti che li hanno creati, riescono a descrivere con efficacia la disperata aggressività dell’uno e il miscuglio di attitudini protettive (il terapeuta diventa minaccioso come un’orsa che difende la prole) e di rilevanti problemi contro- e co-transferali che tormenta l’altro.
Analogamente (si parva licet.. ), Borges cerca di esorcizzare il rischio che tutti noi corriamo, di finire come il protagonista della sua ricerca: un gesuita manierista che congela con l’intelletto la materia palpitante di cui si occupa (“Gelido nulla laborioso fu/per questo gesuita la poesia/da lui ridotta a mero stratagemma”).
Ed ecco cosa accade alla fine delle due pagine scritte da Borges.
“Non meno ignaro d’amore divino/che di quello che sulle bocche arde”, Baltasar Graciàn a un certo punto muore (“lo sorprese la Pallida una sera/che leggeva le strofe del Marino”). Nemmeno nell’aldilà, l’intellettuale s’avvede però del suo errore esistenziale. Anche da morto, egli continua a sciogliere nella memoria “labirinti, allitterazioni emblemi”.
Ci sono Colleghi ‘psy’ (intendo psichiatri, psicologi, psicoterapeuti e psicoanalisti che non hanno perso la buona abitudine di ascoltare/parlare con i pazienti) ai quali In Treatment proprio non piace. Si tratta di un parere del tutto legittimo, naturalmente, anche perché – come dice un antico adagio – dei gusti personali conviene non discutere. Alcuni di coloro cui lo spettacolo non piace, spingono però il loro disdegno molto avanti e sostengono che questa serie sia addirittura dannosa per la credibilità professionale di psicoterapeuti e psicoanalisti (credibilità che viene intesa, e difesa, secondo il modello metodologico da loro più apprezzato, ovviamente).
Quando gli argomenti di natura tecnica non bastano per criticare il serial, alcuni ‘psy’ s’improvvisano critici cinematografici e s’impegnano a svalutare il lavoro dei professionisti che l’hanno creato, sottolineando le debolezze della sceneggiatura, le ingenuità della regia o l’inefficacia dell’interpretazione degli attori. Credo che il quinto episodio degli incontri fra il Dott. Mari e Dario sia particolarmente ben riuscito tanto quanto come spettacolo televisivo che come documento di finzione/intuizione clinica. Scrivo dunque queste note con l’intento di dimostrare quanto siano ingenerosi e incongrui, in questo caso, gli attacchi dei fautori del miracolo psichico ineffabile.
L’episodio si compone di tre fasi fra loro ben integrate. Nel primo ciclo dello scambio discorsivo, i due interlocutori interagiscono molto vivacemente (dovessi dire in cosa si distingue, ciò cui assistiamo, da una seduta ‘vera’, direi che la differenza è analoga a quella fra il tennis e il ping pong: in una fase come questa, un analista DOC non si lascerebbe attirare sotto rete; resterebbe a fondo campo cercando di rallentare il gioco del battibecco e delle sfide). Come negli episodi precedenti, Dario mira ad attaccare il suo terapeuta e, per farlo, mette in campo una tattica di guerriglia dialogica già ampiamente utilizzata negli episodi precedenti.
La tradizione psicoanalitica chiama questa modalità d’interazione ‘inversione di prospettiva’, perché il paziente cerca appunto di rovesciare i ruoli curante/curato e di mettere lo psicoterapeuta in una posizione emotiva di difficoltà crescente. Non è un’evenienza rara. Tutt’altro. Qualche volta si tratta di operazioni assai sottili che sono difficili da riconoscere e dunque da fronteggiare. Più spesso, invece (per fortuna), ci si deve confrontare con artifici piuttosto grossolani che non è impossibile disinnescare. Comunque non è lo ‘psy’ che conduce il gioco, in questi casi, ma il paziente.
Non volendo subire interpretazioni, Dario fa lui le interpretazioni che ritiene pertinenti. Dice di aver raccolto degli indizi e di sapere bene che i rapporti fra il Dott. Mari e la sua paziente, Sara, non sono sempre impeccabili e professionali. A disturbarlo enormemente – sembra chiaro – è l’importanza che Giovanni ha assunto nella vita dei suoi pazienti.
Quando si sente in vantaggio e ritiene di aver inchiodato il terapeuta (“Perché mi guarda così? […] Mi guarda come uno che si sente scoperto e vuole attaccarmi”), Dario parla però di suo padre (“E’ da lui che ho imparato il significato di uno sguardo me il suo”) e si allinea con quest’ultimo, cioè col padre-nella-mente (il Padre che ha dentro di sé), immaginando che l’intento della cura sia svalutarne la funzione. “Coraggio – dice al terapeuta – scarichi il suo caricatore: mi massacri di domande. […] Non è questo che fate voi terapeuti? Non ce l’avete sempre coi genitori? Non sono sempre loro la causa di tutti i mali?”
Nel secondo ciclo discorsivo il dott. Mari passa al contrattacco. Approfitta del varco che gli è stato aperto dalle parole del paziente (“Che fa? Vuole paragonarsi a mio padre? Ma non sa che mio padre è d’acciaio?”) e lancia un’offensiva interpretativa in grande stile (“L’acciaio mi fa pensare a due cose.”). Giovanni non sembra cogliere l’urgenza deflagrante del problema emotivo emergente sin dal primo incontro (il senso di colpa per la strage di Oberhafen). Anziché sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda del suo interlocutore (“Mi dica cosa pensa di me? Di un uomo che ha sparato in testa a un altro uomo?”), purtroppo fa esattamente quello che il paziente aveva previsto e preparato: si concentra sulla figura del padre magistrato. La linea argomentativa del terapeuta è molto chiara. Dario è cresciuto all’ombra di una figura genitoriale idealizzata che non è mai riuscito a criticare. Dunque, dice Giovanni, il paziente avrebbe sempre fatto una gran fatica a crescere e non sarebbe mai stato in grado di esprimere il suo risentimento nei confronti del genitore. Adesso, quest’odio mai espresso, lo rovescerebbe addosso al terapeuta.
La terza parte del colloquio inizia con la battuta che fa seguito all’iniziativa interpretativa di Giovanni. “In vita mia – dice Dario – non ho mai visto tanto disprezzo.” Nella prospettiva sistematicamente rovesciata di cui si serve per difendersi, ha ragione di pensarlo. Il disprezzo che vede in Giovani non è però lì dove lui lo immagina, ma nelle relazioni interne che organizzano la sua vita psichica. In particolare e più specificamente, il disprezzo è implicito nella furia con cui una figura interna severissima, il padre-magistrato, tormenta un’altra figura del suo mondo interiore: il responsabile della strage che è avvenuta in Germania e di quelle che si stanno adesso riproducendo in Italia.
Sentendosi attaccato dal terapeuta e immaginando inoltre criticato il suo monumentale Padre, Dario sferra un contrattacco privo di scrupoli: organizza un discorso mostruoso, inaccettabile e abusivo. Tortura Giovanni con particolari veritieri sulla vita della sua famiglia – dettagli privati e personali che sono il risultato, dice, di un’indagine poliziesca durata solo poche ore. Lo accusa di aver abbandonato il proprio padre in una casa di riposo, lo informa del viaggio a Parigi della moglie col suo amante e imperversa anche sulla figlia del terapeuta, descrivendo con disprezzo la personalità del ragazzo col quale questa si accompagna (“un tossico”). Dato che il terapeuta rimane immobile al suo posto, Dario insiste e torna allora ad attaccare Sara (“una puttanella isterica” la definisce).
È a questo punto che sceneggiatori, regista e attori introducono la loro invenzione più efficace.
Giovanni si ribella alle vessazioni che ha dovuto subire e attacca fisicamente il suo interlocutore. Tecnicamente, dicono gli ‘psy’, il terapeuta replica agli agiti del paziente con un agito: ossia, costroagisce. Getta in volto al paziente il suo caffè, si alza furiosamente dalla poltrona, afferra con entrambe le mani la camicia di Dario e gli urla sulla faccia il suo anatema: “Lascia stare i mei pazienti!”
I due rimangono per qualche attimo così: immobili. Poi Giovanni rilascia i pugni, Dario prende la sua giacca e se ne va senza dire una parola. Il terapeuta rimane solo in preda al suo tumulto interiore e mentre cerca di raccogliere i cocci della tazza, si ferisce una mano. Entra la moglie, di ritorno da Parigi. Gli medica la ferita e parla, ma arriva un altro paziente; la moglie esce dalla stanza e Giovanni apre la porta.
Stacco e controcampo: la macchina da presa ruota di 180° e mostra la prospettiva di uno spettatore che stesse alle spalle del nuovo paziente. Il volto di Giovanni pare tranquillo, sorridente. Non è finzione e falsità, come sa bene gli spettatori che sono del mestiere. Il lavoro deve proseguire comunque, perché ci sono altre responsabilità cui occorre far fronte.
Mentre cerco di immaginare cosa diranno questa volta gli ipercritici incontentabili, mi viene in mente una poesia di Borges intitolata Baltasar Graciàn. Il poeta immagina la vita interiore di un intellettuale per il quale la poesia non era “musica dell’anima, ma un vano/erbario di metafore ed arguzie/cieca venerazione per le astuzie/disdegno per l’umano e il sovrumano”.
Ciò che gli spettatori intuiscono veritiero in questo episodio di In Treatment, è la turbolenta vivacità dello scambio emotivo fra i due interlocutori. I personaggi vivono come possono e cercano un loro modo per comunicare. Gli artisti che li hanno creati, riescono a descrivere con efficacia la disperata aggressività dell’uno e il miscuglio di attitudini protettive (il terapeuta diventa minaccioso come un’orsa che difende la prole) e di rilevanti problemi contro- e co-transferali che tormenta l’altro.
Analogamente (si parva licet.. ), Borges cerca di esorcizzare il rischio che tutti noi corriamo, di finire come il protagonista della sua ricerca: un gesuita manierista che congela con l’intelletto la materia palpitante di cui si occupa (“Gelido nulla laborioso fu/per questo gesuita la poesia/da lui ridotta a mero stratagemma”).
Ed ecco cosa accade alla fine delle due pagine scritte da Borges.
“Non meno ignaro d’amore divino/che di quello che sulle bocche arde”, Baltasar Graciàn a un certo punto muore (“lo sorprese la Pallida una sera/che leggeva le strofe del Marino”). Nemmeno nell’aldilà, l’intellettuale s’avvede però del suo errore esistenziale. Anche da morto, egli continua a sciogliere nella memoria “labirinti, allitterazioni emblemi”.