In Treatment: Essere in analisi, "scontro" o "gioco"?

Serie TV

Per la rubrica “Una settimana con il dottor Giovanni Mari” è questa volta Elisabetta Marchiori a commentare le vicende che accompagnano l’uomo e il terapeuta Castellitto nella quarta settimana di In Treatment

di Elisabetta Marchiori

Sorprende come certi film abbiano il potere di muovere nello spettatore affetti e riflessioni del tutto diversi. Immagini, dialoghi, musiche e storie vengono rielaborati attraverso processi coscienti e inconsci, per essere trasformati in una “pellicola” del tutto personale.

Vale anche per la fiction “In Treatment”, per la quale alcuni psicoanalisti si sono cimentati nella sfida: seguire il dr. Mari, i pazienti e il suo supervisore puntata per puntata, settimana per settimana. Ognuno ha dato una propria versione, attento a “dire qualcosa di psicoanalitico”, senza dimenticare che si tratta di una fiction e non della registrazione di sedute reali. Leggere i commenti dei colleghi mi ha offerto un replay delle puntate, viste con altri occhi, tanto da chiedermi se Giovanni, Sara, Dario, Alice, Lea, Pietro e Anna fossero solo omonimi protagonisti della fiction che ho visto io.
“In Treatment” raggiunge l’obiettivo, non scontato per un prodotto televisivo, di coinvolgere, suscitare emozioni, produrre scambi di pensiero.

Giunto alla quarta settimana mi spetta il compito di tentarne un bilancio, e mi ritrovo, con il dr. Mari, in imbarazzo e un po’ smarrita. Di queste sedute, che si susseguono incalzate da un crescendo drammatico di emozioni sempre più forti, di traboccante eccitazione, forse l’unica cosa che uno psicoanalista - con Anna - può dire è: “non so che cosa dire”.

Lo sottolinea nel commento all’incontro fra Giovanni e Anna il collega Luca Nicoli sul sito Spiweb (S.P.I. sta per Società Psicoanalitica Italiana, ndr). Ma sarebbe un “non saper cosa dire” che significa - ricordando il bel libro Lo zen e l’arte di non sapere cosa dire, dello psicoanalista Stefano Bolognini - avere in mente molto da dire, sentendo e comprendendo che nulla di quanto si ha in mente sarebbe sufficiente, esaustivo e adeguato a rendere la complessità, la profondità, il senso di ciò che si è presentato sulla scena; tanto meno di una fiction, che entra in un luogo, quello della stanza d’analisi, e in un rapporto, quello dello psicoterapeuta-psicoanalista con i suoi pazienti, davvero difficili da esplorare con una macchina da presa. A partire dallo studio del dr. Mari, così poco accogliente (come le sue braccia troppo spesso conserte) e popolato di oggetti che dicono troppo di lui, fino all’abuso della self-disclosure (rivelamento non solo di opinioni, ma anche di fatti personali del terapeuta), attraverso una serie di elementi molto lontani dalla cultura psicoanalitica italiana. Mi chiedo l’effetto che la rappresentazione può indurre in una persona che desidera “entrare in terapia”.

Chi ne ha esperienza può riconosce le differenze fra realtà e finzione, ma chi non ne ha? É attratto, spaventato, incuriosito o dissuaso?
Allora qualcosa si può dire, per sollecitare la capacità critica costruttiva dello spettatore: credo che la battuta di Anna in chiusura dell’ultima puntata, l’esplicitazione del bisogno di pensare e il silenzio che segue mi abbiano colpita particolarmente perché segnalano ciò che nelle sedute di Giovanni con i suoi pazienti non si era sentito (e per esigenze drammaturgiche forse non può farsi sentire), ma che il regista e gli sceneggiatori mettono sapientemente in luce, rilevandone la mancanza. Il grande Assente, che invece è molto presente in qualsiasi trattamento di psicoterapia psicoanalitica e di psicoanalisi, è il silenzio, quello che garantisce lo spazio e il tempo necessari affinché quanto succede nella stanza di analisi e nelle dinamiche transferali e controtransferali permetta di avvicinarsi al mondo interno del paziente, di dare un senso alla sua esperienza, di produrre pensiero.

Le sedute, per come le ho percepite, non hanno la caratteristica di un “bell’incontro”, come quello che avrebbe voluto Dario con Sara (e forse con Giovanni). Avere un “bell’incontro” si riferisce alla sfera dell’autenticità, della creatività, che non elimina sofferenze, incomprensioni, difficoltà, ma permette di accoglierle, valorizzarle, elaborarle.

In quest’ottica, la psicoanalisi può essere intesa come “l’arte dell’incontro”, che permette una rappresentazione nuova degli incontri che hanno segnato le svolte e i destini della vita di ognuno di noi, creando i presupposti per quelli che verranno.

Le terapie del dr. Mari sembrano svolgersi all’insegna dello scontro, più o meno frontale, della sfida dal ritmo pressante, in un susseguirsi di affermazioni provocatorie, domande, azioni impulsive (la più eclatante è il tentativo di suicidio di Alice), descrizioni di atti sessuali più o meno violenti, privi di desiderio autentico per l’Altro, spiegazioni razionali, racconti di situazioni personali (non essere riuscito a salvare la propria madre, essere eccitato da racconti erotici, avere da adolescente pensato al suicidio, essere sposato e in crisi con il proprio matrimonio) e interpretazioni il più delle volte precoci, collusive, che non portano a consapevolezza.

I pazienti pare si difendano come possono: chi smette di parlare di sè e si concentra sull’analista (Sara), chi si chiude in bagno e ingoia gli psicofarmaci del medico (Alice), chi si prende la pausa caffè (Dario), chi s’infuria e urla “cerchi di ascoltarci lei per una volta” (Pietro).

Eppure, di “materiale” per lavorare bene, i pazienti del dr. Mari ne forniscono, eccome! Tuttavia lui ignora, come gli fa notare Anna, che aggredisce, urlando: “è insopportabile che mi interrompi continuamente con i tuoi commenti del cazzo!”. Eppure è proprio quello che Giovanni troppo spesso fa con i suoi pazienti: attraversa una crisi personale profonda, dovuta a conflitti irrisolti e antiche frustrazioni inelaborate, che compromettono la relazione terapeutica. Per essere psicoanalisti e “buoni terapeuti” – come dice Giovanni - non basta “essere passati” per esperienze dolorose, “avere presente” che cosa si prova: è imprescindibile aver lavorato a lungo su se stessi, avere esperienza di un trattamento analitico personale, di un training serio e articolato. É una garanzia che dobbiamo anzitutto ai nostri pazienti!

Un celebre psicoanalista inglese, Winnicott, ha dato a mio avviso una delle più convincenti, e poetiche, definizioni di psicoterapia: un luogo dove si sovrappongono due aree di "gioco", quella del paziente e quella del terapeuta. La psicoterapia avrebbe a che fare con due persone che "giocano insieme". Può non essere possibile giocare quando elementi di seduzione prendono il sopravvento, quando l’eccitamento istintuale corporeo è eccessivo, quando l’angoscia è insostenibile, quando non si condividono autenticamente le regole. In quest’ultimo caso, per esempio, il dr. Mari dice a Lea e Pietro “cosa può succedere e non può succedere” durante le sedute e poi viola lui stesso il setting rispondendo al telefono. Saper giocare significa avere la possibilità di fare un’esperienza creativa che prenda spazio e tempo e sia (come il gioco per il bambino) intensamente reale per il paziente e condivisa dal terapeuta.

Per evadere “dalla selva oscura”, dove ogni terapeuta si è talora trovato nella sua esperienza clinica con i pazienti, e per trovare insieme una via d’uscita, bisogna recuperare la possibilità di giocare insieme. Questo comporta che l’analista non reagisca con forza uguale e contraria all’espressione degli affetti dei propri pazienti, abbia la pazienza e l’umiltà di tollerare e rispettare i suoi limiti, di professionista e di essere umano, la capacità di stare al passo del suo paziente, di attendere che le cose emergano, si colleghino, si trasformino, assumano senso, senza pretendere di avere una risposta o una domanda già pronte, sapere sempre cosa dire.

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